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“Così Bergoglio mi salvò la vita dai narcos”

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Padre José Maria Di Paola«Papa Francesco continua a essere semplicemente Bergoglio: le azioni che ha compiuto in passato a Buenos Aires adesso le porta avanti nel guidare la Chiesa in tutto il mondo. Quando l’hanno eletto, pensavamo a quando era stato al nostro fianco, nei momenti buoni e nei momenti difficili».

UN AMICO DI LUNGA DATA– Padre José Maria Di Paola, 51 anni, argentino, noto come Padre Pepe, è un amico di lunga data del Papa: l’ha conosciuto arcivescovo a Buenos Aires, mentre lui era uno dei preti delle favelas, le baraccopoli argentine. Da allora è nata una profonda amicizia, tanto che se ogg qualcuno domanda al Pontefice chi sia Padre Pepe, il Santo Padre risponde: «È un uomo di Dio che fa molto bene alla mia anima e alla mia vita spirituale. È uno degli uomini che rispetto di più e che ascolto con attenzione, e non solo perché è un sacerdote».

“MI HA SALVATO LA VITA”- Ciò che lega Padre Pepe a Papa Francesco è qualcosa di speciale, visto che oggi, se il sacerdote argentino è vivo, lo deve anche a Bergoglio: «Nel 2009 fui minacciato di morte dai narcotrafficanti», racconta Di Paola, che per tredici anni è stato parroco nell’insediamento più povero e più grande della città di Buenos Aires, nel quartiere di Barracas, dove circa 50mila persone vivono in baracche. «Chiamai subito Bergoglio, gli raccontai quanto era accaduto, della minaccia inequivocabile che avevo subito la sera prima e lui rimase colpito. Mi disse: “Se deve succedere qualcosa a qualcuno dei miei, voglio che ammazzino me”. Qualche giorno dopo mi spostò in una diocesi vicina. E la domenica successiva, all’omelia in cattedrale, mi difese pubblicamente», ricorda il sacerdote argentino. «Le minacce, però, vennero estese ai collaboratori della mia équipe e allora decisi di andarmene per non mettere in pericolo la loro vita», racconta Di Paola, che decise così di lasciare la parrocchia di Barracas per andare in missione nel Nord dell’Argentina.

LA FIGURA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI- L’amicizia tra i due è proseguita negli anni, perché a legarli è lo stesso modo di vivere il sentimento religioso e la dedizione verso gli altri: «Sono stato colpito sin da bambino dalla figura di San Francesco d’Assisi», racconta Padre Pepe. Esattamente come Papa Bergoglio, che il suo primo messaggio al mondo intero l’ha lanciato scegliendo il nome di Francesco in onore del Santo di Assisi e della sua Chiesa povera tra i poveri. «Una povertà in senso evangelico», specifica Padre Pepe. «In genere la società dice che se c’è povertà si deve fare qualcosa. Invece il nostro atteggiamento e quello del Papa è sì quello di fare qualcosa, ma anche di imparare dal povero che, proprio perché non ha nulla a cui appigliarsi per difendersi, spesso ha una saggezza, un’apertura a Dio e un atteggiamento religioso che chi ha ricevuto una migliore formazione rischia di non avere. È una ricchezza che si coglie a patto di guardare a queste persone nel modo giusto, come fa Papa Francesco. Il povero è molto più aperto di noi nell’accettare Dio e i suoi comandamenti, perché non è distratto da potere, fama o ricchezza materiale. Presto ci si rende conto che i poveri ti insegnano di più e ti offrono di più di quello che tu lasci a loro. Quando te ne vai, pensi che in definitiva hai ricevuto più di quello che hai potuto dare».

UNA VITA TRA I POVERI- E i poveri Padre Pepe li conosce bene dopo una vita passata nelle favelas: «Viviamo vicino alla gente e la accompagniamo nella loro vita. È un lavoro sia spirituale che sociale: le due cose vanno insieme», spiega il sacerdote, raccontando il suo impegno con i poveri e contro la droga. «Una delle poche cose che ci raccomandava Bergoglio, che non sapeva niente del recupero dei tossicodipendenti, era che lavorassimo direttamente con le singole persone, perché ognuna ha una storia diversa e non esiste una ricetta uguale per tutti. Ognuno arrivava con le sue ferite, con la sua sofferenza e quando gliene parlavamo, ci diceva che per noi avvicinarci a essi era come toccare le piaghe di Cristo; vedere il volto o la carne sofferente di Cristo».

LE PAROLE DEL PONTEFICE- «Padre Pepe lavora per Gesù Cristo. Tutto il resto è subordinato a questa vocazione così profonda che ha per il sentimento di Gesù Cristo, è ciò che si chiama zelo apostolico», dice il Pontefice, «non è uno che organizza le cose. Non è una macchina da lavoro. Pepe è un uomo di preghiera che crede nella presenza di Gesù nella Chiesa. Secondo me, è questo il segreto della sua vita. È un apostolo, sedotto dal Signore, che cerca continuamente il Signore. E, per arrivare a questo, ha percorso molte strade».

DERBY CALCISTICO- Oggi la strada di Padre Pepe è a La Carcova, una località a una trentina di chilometri da Buenos Aires. Con Bergoglio si sente sempre, e quando lo scorso agosto è venuto a trovarlo in Italia, ha portato con sé una valigia con rosari, fedi, anelli di fidanzamento e tanti altri oggetti religiosi da fargli benedire. In mezzo, anche un regalo speciale che il Papa ha accettato solo in nome di un’amicizia davvero profonda: una maglietta del Club Atletico Huracán, la squadra di calcio di Padre Di Paola, da sempre rivale agguerrita del San Lorenzo, di cui è invece, tifoso Bergoglio.

LA LETTERA AL PAPA- Quel che Padre Pepe immagina sia rimasto nel cuore del Papa, però, è una lettera scritta da una coppia di giovani che Bergoglio ha conosciuto bene ai tempi del suo vescovato: «Vivevano in un cassonetto dell’immondizia, in condizioni estreme, due vite che avevamo date per perse e che invece nel cammino di Cristo si sono ritrovate», spiega Di Paola. «Oggi questi due giovani hanno lavoro, figli e collaborano nel cammino di recupero di altri giovani tossicodipendenti del quartiere. A entrambi Bergoglio lavò i piedi nella messa del giovedì santo del 2008».

Luigi Nocenti per Visto

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