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Elon Musk, la rivolta del Masaniello miliardario contro la censura

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Elon Musk è l’uomo più ricco del mondo, o giù di lì. Ma tra tutti i Paperoni del pianeta è il più anomalo. Ha venduto tutte le sue case perché «appesantiscono le persone». Non è interessato al potere, nè alla sua gestione.

Sicchè, quando si è comprato Twitter per 44 miliardi e ha annunciato il “free speech”, la libertà assoluta di parola, in coloro che tirano le fila della censura si è scatenato il panico. A noi pare al momento come il Masaniello della rivolta di Napoli rispolverato da Pino Daniele nella mitica “Je so’ pazzo”. Certo, decisamente più agiato.

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Ma comunque una scheggia impazzita in un sistema digitale che pareva ormai sotto il ferreo controllo delle autorità. Tutto iniziò, se ricordate, quando le praterie di libertà dei social furono improvvisamente arginate dalla cacciata del re dei tweet, Donald Trump, con la scusa che incitava alla violenza. Naturalmente erano balle.

Nello stesso periodo impazzava infatti sul social fondato da Jack Dorsey il dittatore venezuelano Maduro, trovava spazio l’ayatollah Ali Khamenei, mieteva seguaci il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che proprio su Twitter aveva appena minacciato serenamente la Grecia: «Lo capiranno, o attraverso il linguaggio della politica e della diplomazia, oppure sul campo attraverso amare esperienze».

Era una manna per il porno e lo strumento preferito addirittura dall’Isis per rivendicare le azioni terroristiche: tanto da essere perfino diventato oggetto di studio del think thank Ispi nel volume “Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis”.

elon musk

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Trump fu dunque semplicemente privato del suo principale megafono per ragioni politiche senza che un giudice, dettaglio cruciale, potesse mettervi becco.

La successiva pandemia da Covid divenne l’occasione per mettere definitivamente il bavaglio ai social network, che fino ad allora avevano sostenuto in ogni sede di non essere editori e di non poter dunque dettare le linee dei contenuti. Per stare solo in Italia, il ministro della Salute Roberto Speranza siglò subito accordi con Facebook, Youtube e Twitter per fermare le fake news in merito alla pandemia, accordo che Google tradusse in soggetti “che diffondano disinformazione, in contraddizione con le informazioni fornite sul Covid-19 dalle autorità sanitarie locali.”

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Facebook, nel silenzio generale, autorizzò taluni debunker a trasformarsi in giudici e a bollare come fake news qualsiasi notizia ritenesse non in linea con le direttive ufficiali, mettendo alla gogna, in maniera questa sì potenzialmente diffamatoria, opinioni diverse ancorchè magari fondate.

Nacque così una sorta di nuova giurisdizione digitale dove i processi non esistono e nemmeno i reclami, ma solo togati improvvisati nel doppio ruolo di accusa e corte. Interi canali Youtube “non in linea” furono cancellati o demonetizzati. E lo stesso successe con Facebook.

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Il risultato è che oggi siamo costretti a leggere come verità, ad esempio, i deliranti proclami di virologi i quali affermano che la Cina colpita da una miniondata di coronavirus abbia sbagliato tutto e nelle cure da noi bocciate (come il plasma iperimmune) e nei vaccini diversi da quelli da noi adottati. Peccato che la Cina conti 4 morti di Covid per milione di abitanti e l’Italia 2715 per milione. Un abisso tale da rendere ridicolo ogni commento.

Con la guerra in Ucraina il sistema si è addirittura perfezionato e Google ha annunciato la demonetizzazione non solo dei canali Youtube, ma anche dei siti che “disinformano” sull’Ucraina, come se fosse ancora una volta il colosso di Mountain View, e non un tribunale, a dover decidere se una notizia sia vera o falsa.

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L’Europa ha approvato il Dsa, complesso meccanismo contro la disinformazione, che ovviamente decidono sempre i governi quale sia. E ora, con il megafono dei soliti, imbarazzanti tirapiedi della stampa, avverte Elon Musk che non potrà fare ciò che vuole inneggiando al “free speech”.

Ovvero? Non sappiamo ancora bene come funzionerà, ma difficilmente si discosterà dalle linee del “Disinformation Governance Board”, nato negli Stati Uniti contro le informazioni false su temi, vedicaso, come il Covid e la guerra in Ucraina, solo per cominciare.

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A capo ci hanno messo Nina Jankowicz, una che, nientemeno, è stata consulente proprio del ministero degli esteri di Kiev. E che s’intende di fake news per averle diffuse: raccontò infatti nel 2020 che le notizie trapelate sul laptop del figlio di Joe Biden, Hunter, fossero un “prodotto della campagna di Trump”. Invece era tutto vero, come ha documentato recentemente il Daily Mail.

Ma se oggi lo abbiamo scoperto, domani, grazie ai fautori della censura preventiva, potremmo non farlo più. Il Ministero della Verità profetizzato da George Orwell in 1984 sta per diventare una realtà.

A meno che il Masaniello di Tesla non guidi la rivolta della Rete al grido di “Je so’ pazzo…nun nce scassate ‘o cazzo!”

 

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