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Il Club 27, l’origine della leggenda maledetta della musica contemporanea

L’inquietante leggenda del Club 27: e se il talento di molti geni della musica contemporanea avesse una spiegazione tenebrosa? Ecco come tutto cominciò…

Questa storia ha a che fare con maledizioni e diavoli, non per caso considerando che un famoso esorcista spiegò come il Demonio si insinui tra le note musicali.
Chi non ha mai sentito parlare del Club 27?
Secondo Wikipedia: “Club 27, è un’espressione giornalistica che si riferisce ad alcuni artisti, in prevalenza cantanti rock, morti all’età di 27 anni. Con la variante “J”27 si fa riferimento al fatto che, oltre ad avere 27 anni, alcuni di loro avessero la lettera J come iniziale del nome o del cognome.”

club 27
Jonathan Kis-Lev, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Indubbiamente è stato scritto di tutto su questo Club, una delle leggende più misteriose e intriganti del mondo del rock, ma siamo sicuri che non ci sia dell’altro?
Sì, c’è!
Andiamo con ordine.
Tra il 1969 e il 1971 scompaiono all’età di 27 anni grandissimi artisti “maledetti”: Jim Morrison, Janis Joplin, Jimmy Hendrix e Brian Jones.
Jim Morrison, il Re Lucertola, viene trovato morto il 3 luglio 1971 nel suo appartamento di Parigi. Aveva riempito la vasca da bagno dopo aver bevuto birra e whiskey e assunto cocaina.
Forse pensava all’amica Janis Joplin, una delle più straordinarie voci del rock, dalla vita trasgressiva e spericolata, rinvenuta stesa sul pavimento della sua camera il 4 ottobre 1970, uccisa da un’overdose di droga.
Come Morrison, Janis aveva 27 anni.

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Prima di lei Jimi Hendrix, stessa età, uno dei più grandi chitarristi del mondo, dedito agli eccessi come gli altri due, venne trovato morto in un appartamento di Londra dalla sua ragazza, che dormiva accanto a lui, soffocato dal suo stesso vomito dopo un mix di sonniferi, alcool e anfetamine.
Morrison, Joplin e Hendrix se ne vanno a 27 anni nell’arco di 8 mesi, tutti con una “J” nel nome.
Meno di un anno prima se n’era andato un altro “J”, esagerato come loro: Brian Jones, musicista geniale, uno dei fondatori dei Rolling Stones. Venne trovato galleggiare nella piscina della sua villa il 3 luglio 69 dopo una cena a base di ogni tipo di alcool, tranquillanti e anfetamine.  Anche lui aveva 27 anni.

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In effetti sembrava esserci qualcosa di inquietante, in quel 27, ma poteva essere una coincidenza.
Quelle quattro stelle se ne erano andate prematuramente grazie, o meglio per colpa, dei loro eccessi.
Bisognerà attendere la morte di Kurt Cobain, per vedere la nascita ufficiale del Club 27.
Succede il 18 aprile del 1994.
Cobain, leader di una delle band che più avevano fatto tendenza negli ultimi decenni, viene trovato nel garage della sua villa, ucciso da un colpo di pistola.
È cadavere da 3 giorni, steso in mezzo a una congerie di oggetti, i REM sul giradischi, e in corpo, come rilevato dall’autopsia, un mix di eroina e valium. Depresso, si era sparato un colpo in testa a 27 anni. Proprio con lui nasce quel modo di dire, Club 27, forse a causa di una dichiarazione rilasciata alla stampa dalla madre, che farà accendere la fantasia dei molti: “Ora che è scomparso è entrato in quello stupido club. –disse-  Gliel’avevo detto di non unirsi a quello stupido club.”

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Trascorre un po’ di tempo, muoiono altri musicisti di 27 anni, finché il 23 luglio 2011 tocca ad Amy Winehouse, un’altra delle voci straordinarie della storia della musica. Anche lei esagerata, trasgressiva, e come incapace di sopportare il peso di un dono straordinario come quello della sua voce, Amy viene colta da crisi respiratoria dopo aver ingurgitato tre bottiglie di vodka e chissà cos’altro.
A 27 anni, proprio come gli altri. Amy aveva dichiarato, tre anni prima, di aver paura di morire a quell’età, facendo la stessa fine di altri colleghi musicisti e cantanti.

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Purtroppo, il “Club 27” non accenna a smettere di ingrossare le proprie fila. L’ultima morte risale al 19 Gennaio 2018. Fredo Santana, rapper americano, muore di insufficienza epatica, a 27 anni, naturalmente.
La fatalità di questo fenomeno lascia sconcertati, anche perché il rock e il metal, si dice, sono associati al satanismo, cosa certamente non vera in generale.

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Per arrivare a qualcosa di veramente diabolico, bisogna tornare indietro nel tempo, nel Delta del Mississippi, dove affondano le radici del Blues.
È il Blues, la musica del diavolo.
Musica che nasce dai canti degli afroamericani.
Una parte di questi cantava in chiesa cercando conforto nella fede, da cui il genere gospel e spiritual, ma ce n’era un’altra che bazzicava bettole malfamate, bevendo whisky scadente e frequentando donnacce.
Ecco, loro sono quelli del blues.
Blues deriva dall’espressione to have the blue devils, letteralmente avere i diavoli blu, col significato di essere triste, agitato, depresso.
Il diavolo è già nel nome, e di diavoli blu tra i musicisti blues ce ne sono molti, ma se chiedi chi è il più grande, tutti rispondono lo stesso nome.
Robert Johnson.

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Lo dice anche Eric Clapton, che a Johnson dedica un intero album.
Robert Leroy Johnson nasce nel 1911 a Hazlehurst, nel Mississippi, da una povera famiglia abbandonata dal padre. Uno dei suoi nove fratelli insegna a Robert a suonare l’armonica e lui capisce che la musica gli piace. Così, finita la scuola decide di imparare a suonare la chitarra e si sceglie come maestri Son Hause e Willy Brown, ma Robert si dimostra meno che mediocre. La chitarra proprio non la sa suonare, cerca di imitare i maestri senza successo, non ha tecnica e nemmeno uno stile suo. Insomma non ha la stoffa, e nemmeno come cantante se la cava bene.

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Ed è qui che inizia la leggenda, molto suggestiva e molto inquietante.
Un giorno Johnson se ne va, sparisce, nessuno sa dove sia finito. Sta lontano parecchi mesi, quasi un anno, e quando torna è un miracolo, nessuno lo riconosce più, suona in un modo così incredibile da far accapponare la pelle. Magari ha imparato dedicandosi in solitudine, tenacemente, a migliorarsi. Oppure gliel’ha insegnato qualcuno. Insomma Johnson il talento ce l’aveva, gli mancavano la tecnica e l’esercizio, e si è messo in pari.
Robert Leroy Johnson, diventa uno dei più grandi bluesman della storia. La sua chitarra suona in modo originalissimo, sembra quasi cantare, e altrettanto originale è la sua voce, che sembra piangere. La gente nelle bettole del Mississippi ascolta a bocca aperta.

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È un talento assoluto, con una capacità espressiva e una tecnica vocale e strumentale straordinarie.
In così pochi mesi un cambiamento del genere sarebbe inspiegabile, a meno che…
Si sussurra che Robert, in un cimitero, abbia incontrato il diavolo in persona. Forse, l’8 maggio 1911 era venuto al mondo qualcuno che Satana l’aveva conosciuto personalmente e con lui aveva stretto un patto.

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È così bravo a suonare la chitarra che adesso i proprietari dei locali se lo contendono, e gira parecchio.
Un signore appassionato di musica che si vanta di essere un talent scout sente questo ragazzo geniale e vuole lanciarlo nel mondo discografico.

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Così lo porta in Texas e gli fa incidere 16 delle sue canzoni. Ce n’è una in particolare che colpisce, “Cross Road Blues”, il blues dell’incrocio. Uno dei suoi brani più famosi. Robert la canta con una voce acuta, sulle note alte della chitarra, Quando intona la strofa della canzone viene la pelle d’oca: “I went to the crossroad fell down on my kness” (sono andato all’incrocio e sono caduto in ginocchio…).
Secondo la leggenda il pezzo racconta un fatto reale, ovvero l’esperienza di un bluesman che se ne va a un incrocio maledetto per incontrare una persona molto particolare a cui chiedere un favore.
“Cross Road Blues” è la storia di Robert Johnson che vende l’anima al diavolo in cambio del successo e della fama.
Il Demonio gli ha preso la chitarra dalle mani, gliel’ha accordata e da allora Robert Johnson ha suonato come mai prima. In cambio però il Maligno ha voluto la sua anima, da riscuotere dopo 10 anni.
Johnson, senza tecnica né talento, torna a casa e diventa il mago della chitarra, con qualcosa di grande, di immenso nel suono e nella voce, qualcosa di diabolico, ma dieci anni dopo, esattamente dieci anni dopo, Robert Johnson muore.
E’ il 1938, e Robert si trova con l’amico Sonny Boy in una bettola di Greenwood. Sta suonando in una sala da ballo, guarda un po’ su un incrocio a poche miglia dalla cittadina. Robert suona e beve in continuazione, dopotutto è uno del blues mica uno degli spiritual. A un certo punto qualcuno gli passa una bottiglia di whisky. Sonny Boy si accorge che è già aperta e a lui hanno insegnato di non bere mai da una bottiglia aperta offerta da uno sconosciuto, non si sa mai quello che c’è dentro.  “Non la bere, è aperta” interviene facendo per prendendogliela dalle mani. A Robert, che ha già bevuto parecchio, quell’imposizione non piace, ancor meno il gesto di strappargli la bottiglia.  Beve e sta male quasi subito, dolori allo stomaco così forti che non riesce più a suonare. Lo portano a casa dove resta in agonia qualche giorno contorcendosi dal dolore, fino alla morte. È il 16 agosto del 1938.

Robert era un gran donnaiolo, con conquiste in ogni città. Ne contava una anche a Greenwood, con la quale aveva avuto una storia un po’ di tempo prima, solo che era la moglie del padrone del locale, un uomo terribilmente geloso. Quella sera Robert, bello, elegante e osannato, aveva suonato così bene, che la moglie, ammaliata, aveva cominciato a fargli gli occhi dolci. Un po’ troppo per l’oste che, con ogni probabilità, aveva messo un po’ di stricnina nella bottiglia.
Mai bere da una bottiglia aperta in un locale, soprattutto se stai flirtando con la moglie dell’oste e l’oste è molto geloso.
Insomma, Johnson muore il 16 agosto del ’38. Aveva 27 anni. Ricordate il Club 27?
Tutto ha un costo e Satana non è certo il tipo che fa regali senza nulla in cambio. Aveva concesso a Johnson di suonare come un Dio, e la moneta di scambio sarebbe stata la vita dopo un tempo stabilito.
E quei 10 anni erano ormai scaduti.
Forse l’anima di Robert Johnson non è stata l’unica di musicista che il Demonio ha collezionato.
Se qualcuno volesse andare sulla sua tomba, magari per fare un patto con il diavolo e riuscire a suonare come lui, non ci riuscirebbe, perché di tombe con la scritta sulla lapide -QUI GIACE Robert Johnson- ce ne sono almeno tre.
Proprio come in un incrocio.

 

Paola Mizar Paini

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Paola Mizar Paini

La biografia di una persona, proprio per sua natura può essere meno fedele alla realtà e presentarsi dunque più o meno romanzata e, perciò sono in dubbio se raccontare di una vita ricca e avventurosa o limitarmi a raccontare qualche dettaglio insignificante, come ad esempio il fatto che a Marcignago, il 28 novembre, (l’anno nemmeno sotto tortura) quando nacqui, non emisi nemmeno un vagito… forse per non disturbare visto che la mia mamma fece molta fatica a partorirmi. Respiravo così piano, ma così piano che la levatrice (a quei tempi si partoriva in casa) pensò fossi morta. Ma morta morta! Così mi misero in un angolo del letto, avvolta in un lenzuolino e per un po' si dimenticarono di me. Come si accorsero dell’errore? Ebbene, ci sarebbe un proseguo, ma quella è un’altra storia. Mi definisco una vecchia ragazza perché non ho mai smesso di scoprire cose nuove, soprattutto su me stessa. Sono mamma di tre figli: due maschi e una femmina e ho tre nipoti. Vivo ad Alagna, in provincia di Pavia e lavoro come assistente al traffico per Milanoserravalle. E questo è tutto quello che riguarda la mia interessantissima vita privata. Sono da sempre lettrice per bisogno, e scrittrice…per caso grazie all’incontro fortuito con Carlo Frilli, il mio editore, che non smetterò mai di ringraziare per aver creduto in me come autrice. Con la casa Editrice F.lli Frilli Editori ho pubblicato nel 2017 il noir: Angeli Innocenti. Nel 2018 il noir: La Casa delle ombre, premiato con la “menzione speciale” al premio nazionale “La Provincia in Giallo”. Nel 2018 un’antologia di racconti dal titolo: Dieci storie a mezzanotte. Nel 2020 ho scritto a quattro mani, con l’autore Pieremilio Castoldi, il thriller: Emily.Cronache dal passato, e molti dei miei racconti sono stati inseriti in varie antologie. Mi appassiona tutto ciò che è misterioso, adottando nuovi punti di vista su fatti che accadono intorno a noi a cui non riusciamo a trovare una spiegazione. Tengo a precisare che sono concreta e obbiettiva, ma una cosa non esclude l’altra. Amo molto visitare luoghi abbandonati, i cosidetti “paesi fantasma” e adoro le leggende perché contengono spesso l’origine di una vicenda, o più spesso la separazione tra fantasia, un rifugio indispensabile e perfetto per sopravvivere, e realtà, minacciosa e intrusiva. Miti, leggende, fiabe. Come poter sopravvivere senza esse?

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