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La deportazione in Ruanda e l’oscenità dell’Occidente

Il Parlamento britannico ha approvato una nuova legge: d’ora in avanti, tutti i richiedenti asilo giunti illegalmente sulle loro coste saranno trasferiti in aereo in Ruanda. E i primi migranti sono già stati trasferiti. Il premier inglese Rishi Sunak, che ha voluto fortemente la normativa, parla di una svolta storica che rappresenta «non solo un passo avanti, ma un cambiamento fondamentale nell’equazione globale sulla migrazione. Se si viene vieni qui illegalmente, non si può rimanere e il nostro obiettivo è ora quello di far decollare i voli. E sono consapevole che nulla ci impedirà di farlo e salvare vite umane». Nientemeno.

È talmente oscena questa decisione, che a lungo non si è solo opposta la Corte Suprema britannica, ma anche l’Onu. Ma, evidentemente nostalgica della politica schiavista che l’ha caratterizzata per secoli, la Gran Bretagna pagherà a Kigali una cifra graduale che andrà tra i 69 mila e i 173 mila euro per ogni deportato di qualsiasi nazionalità di cui il Ruanda si farà carico. Per farne cosa, ancora nessuno lo sa.

Si penserà a chissà quale flusso migratorio colpisca l’isola: in realtà, in 6 anni, in un Paese da 67 milioni di abitanti, sono arrivate circa 100 mila persone. Per capirne la portata: si tratta di molte meno persone di quante ne siano entrate in Italia nel solo 2023, quando sono giunti da noi 158 mila migranti. Non vi è dunque alcuna emergenza.

Semplicemente, le politiche migratorie nei Paesi che dettano legge all’Occidente se ne fregano altamente dei diritti umani: basti pensare che nel maggio scorso, il democratico Joe Biden, alla scadenza del Titolo 42 che impediva il flusso di migranti dal Messico per la normativa anti Covid, spedì al confine 1500 soldati per aiutare la polizia di frontiera a respingere i clandestini. Alla faccia del muro di Donald Trump contro il quale un giorno sì e l’altro pure qui si urlava allo scandalo come pecore.

Ma da dove arrivano i migranti che sbarcano in Gran Bretagna? Per la gran parte da imbarcazioni provenienti dalla Francia, la quale, ovviamente, non ci pensa minimamente a riprenderseli. Perchè a Parigi, il motto «liberté, égalité, fraternitè» è uno slogan da sfoggiare a seconda delle stagioni. Non è un caso che, a parte condannare l’Italia quando chiedeva una mano all’Ue per risolvere il problema, ad aprile 2023 Parigi blindava con 150 poliziotti il confine di Ventimiglia.

Eppure la situazione dell’ultima, incontrollabile migrazione è proprio opera della Francia, quando Nicolas Sarkozy aggredì lo Stato sovrano della Libia. Ci fecero passare la storiella del dittatore che andava fermato. Ma oggi, a tredici anni dai fatti, Nicolas Sarkozy è sotto processo per quello che fu il vero movente dell’offensiva: coprire un finanziamento da 50 milioni di euro con cui Gheddafi gli aveva garantito le elezioni del 2007. Un fatto che i “complottisti” avevano denunciato subito, derisi dalle nuove figure dei debunker, sorta di guardie giornalistiche del potere costituito. E tutto è stato acclarato dunque con così tanto ritardo che verosimilmente il processo finirà in una bolla di sapone.

Ma ancora, giova ricordare, la situazione di fuga dall’Africa è tale anche grazie alle scandalose politiche francesi: in Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo Parigi la fa da padrona. Ed esige senza vergogna il monopolio di oro, uranio, petrolio, gas, cacao, caffè, imponendo il franco coloniale e pretendendo impunemente il 50% delle riserve monetarie, per un totale di 500 miliardi di euro l’anno.

A marzo, Emmanuel Macron, il presidente francese, forse scocciato dal fatto che anche il suo predecessore Hollande ci aveva messo del suo per esportare la democrazia, bombardando il Mali nel 2013 e due anni dopo la Siria, si è sentito prudere le mani: «Non escludo l’invio delle truppe in Ucraina, la Russia non può e non deve vincere». Tanto sa già che i profughi non saranno mai di sua competenza.

Solo che l’invio di truppe a Kiev equivale a dichiarare guerra a Mosca. E Vladimir Putin ha già ordinato, a causa di queste demenziali affermazioni, esercitazioni nucleari. In caso di conflitto atomico, nella migliore delle ipotesi, i profughi saremo noi.

Edoardo Montolli

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Edoardo Montolli

Edoardo Montolli, giornalista, è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi (Aliberti, 2009), tuttora spesso al centro delle cronache, ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi vent'anni. Dal 1991 ha lavorato con decine di testate giornalistiche. Alla fine degli anni ’90 si occupa di realtà borderline per il mensile Maxim, di cui diviene inviato fino a quando Andrea Monti lo chiama come consulente per la cronaca nera a News Settimanale. Dalla fine del 2006 alla primavera 2012 dirige la collana di libri inchiesta Yahoopolis dell’editore Aliberti, portandolo alla ribalta nazionale con diversi titoli che scalano le classifiche, da I misteri dell’agenda rossa, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti a Michael Jackson- troppo per una vita sola di Paolo Giovanazzi, o che vincono prestigiosi premi, come il Rosario Livatino per O mia bella madu’ndrina di Felice Manti e Antonino Monteleone. Ha pubblicato tre thriller, considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia (Hobby & Work 2005/ Giallo Mondadori 2008), La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007) e L’illusionista (Aliberti, 2010). Il suo ultimo libro è I diari di Falcone (Chiarelettere, 2018)

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