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Lidia Macchi, risarcimento da 303 mila euro per Stefano Binda: innocente in cella per quasi 1300 giorni

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Il delitto di Lidia Macchi è tornato ad essere uno dei più enigmatici coldcase italiani. E lo Stato ha risarcito con 303 mila euro Stefano Binda, che fu ingiustamente imprigionato per 1286 giorni con l’accusa di essere l’assassino

Finì in cella a trent’anni dalla morte della giovane assassinata a Cittiglio. Contro di lui un castello di teorie su cui, da subito, Cronaca Vera espresse innumerevoli dubbi.

Ecco tutta l’inquietante vicenda

lidia macchi binda

 

BREBBIA (Varese)- Lo hanno risarcito con 303 mila euro. Perfino pochi per l’ombra di mostro che gli costruirono attorno: Stefano Binda, accusato ingiustamente di essere l’assassino di Lidia Macchi, trascorse 1286 giorni in carcere da innocente, con una condanna all’ergastolo in primo grado, smontata in appello con un’assoluzione diventata definitiva nel gennaio 2021.

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Ne chiedeva 350 mila, di euro, attraverso i suoi avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, per il danno “endofamigliare” dovuto cioè all’assenza dell’uomo dalla casa in cui vive assieme alla madre e alla sorella. Ma quest’ultima richiesta è stata respinta. Il caso di Lidia Macchi resta uno dei più misteriosi coldcase italiani.

lidia macchi binda

L’OMICIDIO DI LIDIA MACCHI

La sera del 5 gennaio 1987,  Lidia chiese in prestito la Panda al padre per andare a trovare l’amica Paola Bonari all’ospedale di Cittiglio, Varese. Ma una volta uscitane, a casa non tornò. Tre amici la ritrovarono in località Sass Pinì due giorni più tardi: sportello della macchina aperto con quadro funzioni ancora acceso. L’avevano uccisa con 29 coltellate e indossava i collant al contrario, come se fosse stata rivestita.

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Sulla scena del crimine c’erano tracce organiche. Il nuovo test del dna venne fatto a quattro persone, l’esito fu negativo. I reperti della scena del crimine furono quasi tutti distrutti nel 2000. Quando le indagini vennero riaperte, gli inquirenti scivolarono su Giuseppe Piccolomo, l’assassino del delitto delle mani mozzate, quello di Carla Molinari accusato di essere l’assassino addirittura dalle figlie. E lui somigliava all’identikit di un uomo che aveva aggredito quattro donne nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio uno e due giorni prima del delitto.

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Ma il dna, paragonato ad un lembo della giacca di Lidia e alla linguetta della lettera anonima giunta il giorno dei funerali, lo scagionò. Poi, iniziarono i guai di Stefano Binda. Tutto a causa proprio della lettera-poesia, dal titolo “In morte di un’amica”, arrivata alla famiglia della vittima quattro giorni dopo il rinvenimento del corpo di Lidia, in quel lontano inverno. Scritta in stampatello, riportava diversi riferimenti religiosi e parlava di un “velo strappato”.

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Secondo una perizia calligrafica l’autore era lui. E due perizie criminologiche associarono il “velo strappato” ad una violenza fatta a Lidia di cui nessuno avrebbe dovuto sapere nulla. Lui negò di averla scritta. Ma una quarta consulenza, merceologica, affidata al Ris, stabilì che il foglio della lettera era compatibile con quelli di un quaderno ad anelli sequetrato all’imputato: carta riciclata, medesimo l’invecchiamento, stessi difetti dei fori. Tutto chiaro, dunque?

lidia macchi binda

Nemmeno un po’. Primo perché la grafologia non è affatto una scienza esatta, tantomeno lo è se si confronta con lo stampatello e non con il corsivo.

Secondo perché le due interpretazioni criminologiche sul “velo strappato” erano appunto mere interpretazioni.

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Terzo perché, evidentemente, quel foglio doveva essere compatibile per un gran numero di lotti di carta e quaderni venduti a Varese in quel periodo.

Quarto, e fondamentale, perché nella lettera non c’era alcun cenno all’omicidio. Chi l’ha scritta potrebbe benissimo non essere l’assassino. Nessuna traccia di Binda, un alibi: l’appello smontò tutte le accuse.

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IL RISARCIMENTO

Quando l’incubo terminò, Stefano disse al Corriere della Sera: «Avevo molta fiducia perché la verità era sotto gli occhi di tutti. E il procuratore l’ha detto chiaro: nessun contatto fra me e la vittima, l’alibi non viene smentito, il dna sul corpo della vittima non appartiene a Binda. E ha ricordato pure la lettera anonima spedita ai genitori che doveva essere un forte indizio contro di me, perché dicevano che l’avevo scritta io. Ma prima di capire chi era l’autore, perché non si sono fatti una domanda elementare: per quale ragione colui che aveva scritto quel testo doveva essere l’assassino? Mica era una confessione».

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Già. Gli restò un cruccio, la morte del padre di Lidia, Giorgio, che lui conosceva: «L’ultima cosa che si è sentito dire non era vera e cioè che avevano trovato l’assassino e che l’assassino ero io. Non ha avuto modo di vedere la fine, di poter giudicare lui stesso se l’accusa era convincente».

Stefano continua a vivere a Brebbia, dove si occupa di volontariato con diverse associazioni del lago Maggiore. L’avvocato Esposito ha detto, a proposito del risarcimento da 303 mila euro: «Stefano ha accolto la notizia in maniera impassibile, come sempre».

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