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ASSOLTO BUSCO. BUIO SUL DELITTO DI VIA POMA

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simonetta cesaroniLa Cassazione ha confermato la sentenza di assoluzione di Raniero Busco, finito sotto processo per il delitto dell’ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, ammazzata il 7 agosto 1990. Finisce così l’incubo di un uomo sbalzato nel tritacarne della giustizia a quasi vent’anni dai fatti. E si spezza la drammatica catena di sentenze che avevano visto sempre condannati gli imputati nei grandi delitti “mediatici”, come raccontato nei giorni scorsi da Fronte del Blog.

Busco era stato assolto per non aver commesso il fatto dalla Corte d’Assise d’appello di Roma, che aveva annullato una condanna di primo grado a 24 anni.

Merito di una superperizia che aveva smontato, pezzo per pezzo, l’intero castello accusatorio: le tracce di sangue trovate sulla scena del delitto sono di gruppo A e non compatibili con lui. Il dna sul reggiseno della vittima apparterrebbe a tre soggetti maschili diversi. Soprattutto, il morso sul seno di Simonetta che fu il perno della sentenza di condanna perché, si sostenne, tale e quale alla forma della dentatura di Busco, potrebbe non essere nemmeno un morso. Una conclusione devastante.

L’assoluzione definitiva non fa che confermare che ci siamo trovati di fronte all’ennesimo clamoroso errore sul delitto di via Poma. E c’è da tirare un sospiro di sollievo quantomeno per il fatto che dopo la condanna di primo grado, Busco non finì in galera. Ma a dirla tutta, che quel “segno-prova cruciale” non solo non corrispondesse alla dentatura di Busco, ma che non fosse probabilmente nemmeno un morso, si poteva scoprirlo leggendo qualcosa. Bastava sfogliarsi una vecchia intervista al medico legale che fece l’autopsia, Ozrem Carella Prada, ripresa nel volume di Massimo Polidoro Cronaca Nera (Piemme, 2005). Aveva detto il medico: «In realtà, potrebbe essersi trattato solo di un pizzico dato con le mani. Anche perché altrimenti si sarebbero potuti eseguire rilievi morfologici  per identificare la dentatura di chi lo aveva lasciato». E allora, la domanda è semplice: com’ era possibile che un medico legale sostenesse, con il cadavere davanti, che quello forse era un “pizzico” e non un morso, e che vent’anni più tardi, senza cadavere e con le sole foto, si stabilisse invece, che non solo si trattava di un morso, ma anche quando fu dato e quale fosse la dentatura che affondò nella carne?

Nel teorema accusatorio l’orario della morte di Simonetta era cambiato. E pure i ricordi di qualche testimone, cosa che può accadere a vent’anni di distanza dai fatti. Solo che, di solito, si ritiene più attendibile un ricordo immediato di un orario, non quello di vent’anni dopo.

Specie, se di mezzo, c’è la vita della gente. Di più. In primo grado fu detto in primis che Busco non aveva alibi. Ma sua moglie, Roberta Milletarì, raccontò: «All’indomani del delitto furono perquisite due sole case: quella del datore di lavoro di Simonetta, e quella di Raniero, peraltro senza mandato. Raniero rimase in caserma dalle 2,30 di notte alle 13. E ancora dalle 16 per altre 4 ore. Gli dissero di confessare, gli mostrarono le foto. E secondo lei, in tutto questo, non verificarono il suo alibi?».

Ma c’è ancora di più: i giudici nel motivare la condanna di primo grado ipotizzarono come movente una lite tra i due fidanzati, dato che il giorno successivo Raniero sarebbe partito per la Sardegna senza Simonetta. Ma Roberta, cerca cerca, era riuscita successivamente a trovare anche il foglio delle timbrature di presenza sul lavoro di Raniero: arrivavano fino al 17 agosto 1990, dieci giorni dopo il delitto. Nessuna partenza, dunque. Ora, dopo la sentenza di assoluzione in appello, quella definitiva in Cassazione, che cancella ogni ombra anche nei più irriducibili colpevolisti.

Via Poma, intanto, torna nel mistero. Ma a far più paura è ormai è il nugulo di terribili e ingiusti sospetti che per anni hanno mietuto vittime a ripetizione: a partire da Federico Valle, il giovane tirato in mezzo dallo strano commerciante d’auto austriaco Roland Voller, e scagionato dal dna. Per poi passare per una trentina di altre persone cui è stato preso proprio il dna per i confronti con quello ritrovato negli uffici dell’Aiag. E per finire, tragicamente, con il portiere dello stabile del delitto, Pietrino Vanacore, che fu il primissimo indagato, ma sempre scagionato. Alla fine non ha retto più agli sguardi di chi, nonostante tutto, convinto che sapesse qualcosa, lo guardava con diffidenza. E si è suicidato in mezzo metro d’acqua.

Manuel Montero

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