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Ledell Lee, difeso da un avvocato ubriaco e giustiziato da innocente

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Fu giustiziato in Arkansas dopo 12 anni di stop della pena capitale. Recentemente si è scoperto che, come aveva sempre dichiarato, Ledell Lee era davvero innocente. Lo ha certificato il dna. Ma la vicenda processuale ha dell’incredibile: un avvocato ubriaco, un magistrato dell’ufficio di Procura che sposa il giudice che lo condanna, per via di un capello sulla scena del crimine. Dissero che era simile ai suoi. Come fu stabilito? A occhio

 

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JACKSONVILLE – Lo ammazzarono con un’iniezione letale nel 2017. Ledell Lee aveva sempre giurato di essere innocente, nei tanti anni in cui era stato rinchiuso nel braccio della morte. E ai processi. E al momento dell’arresto. Chiese in tutti i modi il test del dna, quando l’organizzazione Innocence Project, che si occupa di errori giudiziari, ritenne che l’esame genetico potesse scagionarlo dopo aver impiegato meno di due settimane per studiare il caso, accorgendosi di quanto fosse scandaloso. Ma la Corte Suprema rifiutò: troppo tardi. L’Arkansas non mandava persone al patibolo da 12 anni e aveva fretta di far vedere quanto fosse brava a punire i colpevoli.

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La casa del delitto

 

Oggi si scopre che lo Stato, dopo tanta attesa, ammazzò pure la persona sbagliata: il dna ritrovato sulla mazza da baseball che uccise la vittima nel 1993, la 26enne Debra Reese, finalmente analizzato, appartiene ad altra persona, rimasta tuttora ignota. C’erano anche impronte digitali sulla scena del crimine: nessuna appartenenva all’uomo di colore assassinato dalla giustizia americana. Ora il governatore dell’Arkansas, Asa Hutchinson, senza provare alcun senso di vergogna, giudica «inconcludenti» e si spinge a dire che «la giuria lo ha ritenuto colpevole sulla base delle informazioni che aveva».

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La vittima

Una cosa che ha fatto scattare la reazione di Innocence Project: «Mentre i risultati ottenuti ventinove anni fa dopo la raccolta delle prove si sono rivelati incompleti e parziali, è da notare che ora ci sono nuovi profili DNA che non erano disponibili durante il processo o il procedimento post-condanna nel caso del signor Lee». Ma quali erano le prove che “inchiodavano” il povero Lee?

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IL DELITTO

Debra era la sua vicina di casa. Separata, lavorava in una boutique e cresceva da sola un figlio di sette anni. Venne massacrata con una mazza da baseball. A portare l’imputato sulla scena del crimine furono alcuni testimoni, che giurarono di averlo visto entrare e uscire dalla casa della vittima. Trovarono un capello. Lo ritennero suo sulla base di un’occhiata al microscopio. Tanto bastò. C’erano cinque impronte digitali, mai identificate e mai messe a disposizione della difesa. Si dirà: come ha fatto l’avvocato a non protestare e a non difenderlo nel giusto modo? La risposta è incredibile: era alcolizzato. Era così ubriaco in un’udienza che gli chiesero di fare un test al termine per come aveva biascicato in aula, ponendo argomentazioni e domande prive di senso. Lee era povero, cresciuto senza un padre e con tre fratelli, e soffriva di un problema cerebrale certificato. In sostanza era solo contro gli Stati Uniti e in particolare contro il procuratore Holly Lodge Meyer, il magistrato che seguì anche i successivi quattro capi d’accusa dei quali il malcapitato fu incriminato (tra cui due violenze sessuali), alcuni dei quali non furono perseguiti quando ormai era stata dichiarata la sua condanna a morte: «Freddo e calcolatore – disse Meyer – e privo di rimorsi». Come no.

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Il procuratore Meyer

Di fatto, gli è stato impossibile difendersi. Ma non basta. Emerse anche che un magistrato dell’ufficio di Procura era l’amante del giudice, che successivamente sposò: un fatto che, evidentemente, poteva rendere il magistrato non esattamente persona imparziale. Ma anche questo non bastò a invalidare il processo: dissero che Lee non era stato in grado di dimostrare che i due avevano una relazione sentimentale anche nel momento in cui era stata decisa la sua sorte. Come se lui, invalido, povero e con un legale ubriaco, potesse accertarlo, peraltro da dietro le sbarre. Nemmeno lo sapeva lui, ovviamente. Lo scoprirono successivamente altri. Così, ogni ricorso successivo, quando le organizzazioni si interessarono al suo caso, risultò tardivo e inutile. Ogni giuramento di innocenza una bugia. Ogni tentativo di negare il delitto, una mancanza di rimorso. Rimorso che non hanno in Arkansas i suoi assassini di Stato neanche oggi che il dna ha stabilito che ad uccidere Debra Reese fu un altro. A volte, i testimoni contano di più della scienza. Succede quando dentro, e in questo caso, a morte, ci finisce un innocente: non chiedono nemmeno scusa.

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