Nel libro “Nome in codice Siegfried” (Chiarelettere), Adriano Monti, medico di Rieti, racconta la sua vita come spia al servizio della Rete Gelhen. Mentre noi pensavamo a politici e battaglie civili, altrove, in silenzio, si decidevano i destini del mondo
Si chiama Nome in codice Siegfried ed è l’autobiografia di un medico chirurgo di Rieti, Adriano Monti, 86 anni. Un libro curato dal giornalista Alessandro Zardetto per Chiarelettere che racconta la doppia vita del dottore, il cui nome, sulle cronache giudiziarie, comparve per la prima volta come uno dei partecipanti al tentato Golpe Borghese. Golpe al termine del quale, dirà lui, sarebbe dovuto diventare ministro degli esteri. E Golpe che, da quanto gli era stato rivelato da Otto Skorzeny, ex ss finito nell’intelligence americana, gli Stati Uniti non avrebbero ostacolato se a capo del governo fosse stato messo Giulio Andreotti (quest’ultimo si disse sorpreso dell’ipotesi).
Nel 2005 vennero desecretati alcuni documenti in cui però il nome di Adriano Monti appariva in ben altro ruolo: «Il problema ora è un altro: il mio nome compare – scrive nel libro – tra quelli degli agenti segreti di uno dei servizi meno noti della storia recente d’Europa, l’Organizzazione Gehlen, nata nel secondo dopoguerra da una collaborazione tra ex spie tedesche e Cia, in funzione prevalentemente anticomunista. Nessuno sapeva, fino a oggi, della mia appartenenza a questo gruppo, che in gergo noi chiamavamo «la Rete». Non lo sapeva mia moglie, non lo sapevano i miei figli, non lo sapevano i miei amici. Nessuno».
ODESSA
Undici anni più tardi Monti ha deciso di svelare in un libro la sua esperienza nella Gehlen. E, ancor prima, dopo un’esperienza nelle ss internazionali ad appena 15 anni (aveva mentito sull’età per arruolarsi), il suo apporto ad Odessa, l’organizzazione che fece fuggire svariati gerarchi nazisti attraverso l’Italia con la complicità di alcune autorità vaticane. Confermando, peraltro, in tutto e per tutto, quanto ipotizzato nel thriller di Enzo Caniatti Il signor Wolf, che, fantasticando di una fuga di Hitler (i misteri che ne circondano la fine sono tuttora aperti), di fatto raccontava le fughe segrete dei generali tedeschi grazie alla cosiddetta “via dei Ratti”.
Il volume è un’incredibile rivisitazione di sessant’anni di storia, la parte più oscura, quella decisa fuori dai proclami e dai media, in un gioco molto pericoloso di spionaggio e controspionaggio, con tanto di nomi e cognomi. Ma cosa fu la Rete Gehlen? Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo di seguito il capitolo dell’ingresso di Monti nella misteriosa organizzazione. Sembra la trama di un film. Ma non lo è.
TI CHIAMERAI SIEGFRIED
Ero a Roma da circa un anno quando un sabato, il giorno della settimana in cui di solito io e padre Theodor ci incontravamo, fui convocato con la massima urgenza. Nel suo ufficio trovai un giovane uomo che al mio ingresso si alzò in piedi. Padre Theodor fece le presentazioni: «Lui è Hans, durante la guerra ha lavorato per il ministero degli Esteri tedesco ed è stato funzionario di un servizio di collegamento con gli americani».
Ci stringemmo la mano e provai per quel ragazzo un’immediata simpatia. Non parlava italiano, ma riuscimmo a comunicare in inglese, lingua che ormai conoscevo piuttosto bene grazie agli studi universitari. Conversammo per tutta la serata. Hans volle sapere qualcosa sul mio conto, si fece descrivere la mia esperienza con le SS internazionali e osservò con ammirazione le cicatrici che avevo in testa. Mi raccontò del suo lavoro durante l’ultimo anno di guerra, di come nel suo paese si fosse tentato disperatamente di collaborare con gli americani per contrastare l’avanzata delle truppe russe e di come la collaborazione fosse rimasta a un livello sotterraneo per l’intervento di troppi fattori avversi. Sosteneva che le posizioni di americani e tedeschi erano in realtà molto vicine e che adesso che il conflitto era finito si stava creando un fronte comune per arginare la marea comunista.
Mi parlò di varie attività e organi di controllo e infine, dopo un lungo giro di parole, arrivò a dirmi che da poco era stata creata una nuova organizzazione all’avanguardia che faceva capo a un vero specialista nel raccogliere e gestire le informazioni sul mondo orientale, soprattutto riguardanti la Russia. Non mi disse il nome, né il compito che l’organizzazione si prefiggeva, ma intuii che anche lui ne faceva parte.
A tarda ora ci congedammo e stabilimmo di rivederci la mattina successiva nel convento di San Francesco a Ripa. Eravamo tutti consapevoli che quello sarebbe stato un incontro decisivo. Lo sapeva Hans e lo sapevo io, anche se non ero certo di dove volesse arrivare il tedesco con le informazioni che mi aveva fornito la sera prima e che mi avevano tenuto sveglio la notte.
Al riparo da occhi estranei, chiusi in una stanza del convento di cui padre Theodor aveva la chiave, l’indomani Hans venne subito al dunque: mi chiese se ero interessato a prendere parte alla neonata Organizzazione Gehlen, che da quel momento avrebbe rappresentato il più competente corpo di specialisti finalizzato a proteggere l’Europa dal comunismo. Mi spiegò che il suo ideatore, il generale tedesco Reinhard Gehlen, alias Herr Doktor, prima e durante la guerra aveva gestito i servizi segreti tedeschi incaricati della penetrazione nella corte staliniana. Negli anni aveva accumulato una tale mole di informazioni e contatti che alla fine del conflitto era stato accolto con tutti gli onori nelle fila dei servizi segreti statunitensi, che già subodoravano il pericolo di un imminente conflitto con l’Unione Sovietica.
L’adesione alla sua organizzazione, che per comodità veniva chiamata «la Rete», era garanzia di prestigio. Gehlen, la cui figura già allora era avvolta dal mistero (di lui circolava per esempio soltanto una fotografia), rappresentava l’ultimo baluardo contro la spinta delle orde asiatiche ancora sul piede di guerra.
Ascoltata attentamente la proposta di Hans, e dopo essere rimasto un paio di minuti in silenzio, espressi la mia perplessità: «Cosa vi aspettate da me?». Non riuscivo a prevedere se sarei stato in grado di gestire la responsabilità che mi stavano affidando e glielo dissi chiaramente.
«Sei molto prudente – disse Hans sorridendo –, per questo sei l’uomo giusto per noi. Non ti verrà affidato nulla che tu non possa portare a termine e, nel caso ti rendessi conto che questa vita non fa al caso tuo, ricorda che non hai alcun vincolo, se non quello del silenzio e della discrezione.»
In quel momento riaffiorò prepotente il ricordo del fervore anticomunista che mi aveva portato a decidere di arruolarmi volontario in guerra. D’improvviso mi tornarono alla mente le parole di Kurt, il primo ad avermi introdotto in quella realtà sotterranea: non possiamo tagliare il cordone ombelicale che ci lega al nostro mondo.
Aveva ragione.
«D’accordo – dissi –, potete contare su di me.»
«Bene» approvò Hans.
In tutto quel tempo, padre Theodor era rimasto zitto, impassibile, guardandomi come un padre guarderebbe il figlio durante l’esame più importante della sua vita.
«Da adesso tu hai due vite» concluse Hans. «In una sei Adriano Monti, studente universitario, un giorno sicuramente un ottimo medico. Nell’altra, dove viviamo io e padre Theodor, da oggi ti chiamerai Siegfried. Dovrai muoverti in silenzio e non lasciare alcuna traccia del tuo passaggio, perché tu non esisti, ficcatelo bene in testa. Se Siegfried viene a galla, metti in pericolo Adriano Monti. Ricordatelo.»
L’uomo di Milano
Continuai la mia vita di tutti i giorni. L’adesione a questa rete misteriosa non intralciò minimamente la mia carriera universitaria né occupò il mio tempo libero, che passavo tra la famiglia finalmente ricongiunta e la mia fidanzata. L’idillio però durò poco: nel 1951 mia madre se ne andò, a soli quarantasette anni, e mia sorella si sposò e si trasferì a Milano. Mi restava solo mio padre, e questo contribuì a consolidare ancora di più il rapporto con la mia fidanzata.
I miei interlocutori principali erano padre Theodor e, in misura minore, Hans. Presto se ne sarebbe aggiunto un terzo, molto importante.
Negli anni, solo in occasioni particolari ne vennero alla ribalta altri. La Rete italiana, se ne esisteva una, era una scatola chiusa che non permetteva in alcun modo di scoprirne le trame né l’identità dei membri. A distanza di tempo venni informato di alcuni agenti inseriti nell’apparato dello Stato italiano, ma si trattava di una semplice voce, e continuai a ignorarne i nomi e il ruolo.
Nei giorni successivi al mio colloquio con Hans incontrai spesso padre Theodor poiché ero desideroso di avere qualche altra informazione. Il frate si mantenne sempre sul vago e mi disse di non avere fretta perché presto avrei ottenuto tutte le informazioni che mi servivano.
Parlammo invece molto della situazione che si stava creando in Europa. Mi disse che era in atto una vera e propria invasione da parte dei servizi segreti russi. Fu quella la prima volta che sentii parlare del famigerato Kgb. Mi spiegò che il punto debole della stabilità mondiale, in un periodo in cui gli Stati Uniti temevano un colpo di mano dell’Urss, era rappresentato proprio dall’Italia, dove il Partito comunista era riuscito ad arroccarsi in una posizione di potere. Non era un mistero la sua completa subordinazione alle direttive della madre Russia e questo poteva essere un problema.
La Santa Sede guardava con preoccupazione alle vicende della vita politica italiana, dove i democristiani stavano mostrando una pericolosa accondiscendenza nei confronti delle sinistre. La longa manus del Kgb si era insinuata in tutti i campi, dalla politica alla cultura, ma l’ingerenza più forte era quella sul mondo dell’informazione. Editori, direttori di giornali ed emittenti radio erano sospettati di ricevere generose somme di denaro in cambio della fedeltà alla causa comunista. Si trattava di un’operazione culturale a vasto raggio, indicativa delle mire imperialistiche di Stalin.
A un paio di settimane dal nostro ultimo incontro Hans mi chiese di raggiungerlo a Milano, all’hotel Principe di Piemonte. Le spese del viaggio mi sarebbero state rimborsate all’arrivo.
Mi organizzai velocemente e la domenica all’alba presi il treno dalla Stazione Termini. Quando verso le due del pomeriggio entrai nella hall, Hans mi accolse con un caldo abbraccio; mi condusse verso un angolo un po’ defilato, dove, accomodato su un divanetto, stava un altro uomo sulla cinquantina, alto e molto magro. Vedendoci arrivare si alzò per stringermi la mano. Ci sedemmo e Hans ordinò da bere; lui e lo sconosciuto presero un brandy, io una soda. Appena il cameriere ci servì, l’uomo seduto alla sinistra di Hans ruppe il ghiaccio e venne al dunque: «Nel caso te lo stessi chiedendo, io sono Emilio, il coordinatore della Rete Gehlen qui in Italia».