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Antonella Di Veroli: il delitto dell’armadio chiuso

antonella di veroli

La cercano da quasi due giorni. L’ultimo ad averla vista è un garagista al quale Antonella Di Veroli, consulente del lavoro di 47 anni, ha affidato la sua A112 verso le 20,30 di domenica 10 aprile 1994. Da allora si è come volatilizzata. Il fratello e la sorella, domenica sera, siccome non rispondeva al telefono, sono stati pure a casa sua, ma non trovandola e apparendo tutto in ordine, se ne sono andati. Il lunedì, quando lei non si è presentata allo studio senza avvertire nessuno, ne hanno però denunciato la scomparsa.

Il giorno dopo tornano nell’appartamento, due stanze, più bagno e tinello: non c’è molto da guardare. Però, facendo attenzione, notano un vestito fuori posto. E un armadio sigillato col mastice. Chiamano il 112.  Dentro, i carabinieri trovano il cadavere della donna: qualcuno le ha sparato due proiettili calibro 6,35 in fronte, attutendo il colpo con un cuscino sulla faccia. Nessuno ha sentito nulla. Il viso è avvolto in un sacchetto di plastica.

Non presenta segni di violenza. Ma ha indosso un pigiama azzurro e il letto era pronto per la notte: il primo indizio che è morta il giorno della scomparsa. E che, ipotizzano gli investigatori, conoscesse bene l’assassino. Nella sua vita privata non c’è però nulla che possa far pensare a qualcosa di strano. Il reparto scientifico dell’Arma trova sangue, un’impronta e 25 capelli, che potrebbero rivelarsi utili.  Sequestrano anche la cassetta della segreteria telefonica. Scavano nei suoi rapporti professionali, sui conti bancari. Vien fuori che si occupava principalmente di pratiche fiscali e denunce dei redditi.

Nel suo studio lavora anche un ragioniere, che ne è amico. Si chiama Umberto Nardinocchi. Gli fanno la prova dello stub, utile a rilevare eventuali tracce di nitrati che si depositano sulla mano dopo aver sparato. Una “routine”, dicono gli inquirenti, che infatti stanno già cercano altrove. Scoprono, ad esempio, che Antonella aveva da poco interrotto una relazione amorosa con un uomo più giovane e che l’estate precedente ne sarebbe terminata un’altra con un fotografo di 51 anni, Vittorio Biffani. Pare che questi avesse con lei un debito di una quarantina di milioni di lire. Un anno e mezzo più tardi, viene mandato a giudizio. Per l’accusa l’avrebbe uccisa con premeditazione. E, insieme a sua moglie, avrebbe poi falsato i testi di alcune conversazioni telefoniche ritrovate sulla segreteria. Lui cade dalle nuvole: «Sono innocente». A destare il sospetto della Procura c’è però lo scontrino di un bar, la cui ora contrasterebbe con la versione dei fatti fornita e alcune contraddizioni negli interrogatori. E poi sembra che sulle sue mani e nella sua cassaforte, siano state trovate tracce di polvere da sparo. Sembra. Un pentito che sostiene che la consulente sarebbe stata assassinata per non aver saldato il debito con alcuni usurai non trova riscontro. Le indagini puntano così tutte su Biffani, che con la moglie, verrà assolto in tutti i gradi di giudizio: incompatibile col dna dei capelli ritrovati sulla scena del delitto, esclusa che l’impronta fosse sua, non è manco polvere da sparo quella ritrovata sulle sue mani e in cassaforte. Il calvario giudiziario termina nel 2000. Biffani muore nel luglio 2003. Il caso di Antonella Di Veroli è ancora irrisolto.

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