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MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE

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martello

Ci sono processi che non cominciano. Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso, quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.

 

LEGGE PINTO 

Nel 2001 prese forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle Corti d’Appello.

Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo, contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza: la “mora” della mora.

strasburgo

Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se non una generica burocrazia.

Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro”.

 

DI CHI È LA COLPA?

Eppure i processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di 1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno, che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi.

Di certo, stando ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco. Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata pari ad un punto del Pil.

Forse.

Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo “altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.

 

EQUO PROCESSO

La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne.  0001

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Si tratta sempre dell’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro. Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia, esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto all’arrestato.

SOTTRAZIONE DI MINORI, PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO

«Moltissime – prosegue la Sammicheli – anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se

Copertina di Panorama sui "sequestri di Stato"
Copertina di Panorama sui “sequestri di Stato”

confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata. L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.

 

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COME STANNO LE COSE

I nostri dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta. Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il 1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia?

sbarre Chi ha pagato per le ingiuste detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto un bambino illeggittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare. Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su 1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?

QUARTO GRADO DI GIUDIZIO

In nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva schierato dall’altra. Facile.

Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso, stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in sede disciplinare.

Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero 113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”, ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio. Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo potrebbe essere rifatto.

Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.

 

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