Avvenne così che Pablo, di professione postino, si ritrovò a naufragare su un’isola sperduta in mezzo all’oceano Pacifico.
Quando si svegliò, faccia nella sabbia e costume inzuppato, decise di massaggiarsi per qualche minuto le spalle doloranti. Attorno a sé una lunga spiaggia bianca e, a pochi passi, quella che sembrava essere una foresta fitta sorvegliata da alberi altissimi e dall’aspetto terrificante.
“Sono su un’isola”, pensò. Guardò a destra e poi a sinistra:
“Un’isola deserta”, aggiunse.
Il cielo, già scuro, si mise a tuonare.
Pablo si alzò e prese una decisione: doveva affrontare la foresta prima che la tempesta potesse portare a termine il piano dell’oceano, cioè affogarlo.
S’incamminò sempre più velocemente e, abbassandosi sotto qualche ramo e graffiandosi le gambe tra i rovi, trovò l’ingresso di una grotta.
“Un buon riparo”, sorrise entrandovi.
All’interno trovò dei legnetti. Prese a sfregarli sempre più velocemente.
Niente da fare, piagnucolò.
Cominciava a fare freddo.
Quando, ormai rassegnato, si accorse di un filo di fumo che si alzava, sfregò ancora più forte e, finalmente, una fiammella prese vita.
Appoggiò i due legnetti a terra e ne aggiunse altri per alimentare il fuoco.
A quel punto, quando la grotta fu bene illuminata, si accorse di qualcosa di strano.
In un angolo poco lontano c’era un materasso e, accanto al materasso, quello che sembrava essere un diario. Si sedette e cominciò a sfogliarlo.
Così, mentre di fuori tuoni fulmini e pioggia scatenavano il finimondo, Pablo scoprì di avere tra le mani le indicazioni per trovare un tesoro nascosto.
Avrebbe tanto voluto mettersi subito a caccia ma, troppo stanco, si sdraiò sul materasso e si addormentò.
La mattina, al risveglio, il temporale aveva ormai tolto il disturbo lasciando solo un piacevole venticello scaldato dal sole.
Pablo si mise subito al lavoro. Mappa in mano raggiunse la pietra rosa accanto alla piccola cascata.
Trenta passi avanti, dieci a sinistra.
“Ecco la quercia gigante”, esclamò soddisfatto.
Ancora novanta passi avanti e trenta a destra: una capanna abbandonata.
Lì recuperò una pala arrugginita.
“Ci siamo quasi”, disse.
Ora dritto fino al pozzo e…
“Eccolo!”. Era proprio lì: il vecchio cimitero abbandonato.
Vi entrò con rispettoso timore e si mise a leggere le lapidi ormai quasi del tutto corrose dal tempo.
“Jamison… Tupper… LaGrande… Teach…”
Ed eccola lì: Long John.
Si diede da fare con la pala. Scavò, scavò e scavò mentre il sole picchiava sulla sua testa come un martello. Quando finalmente toccò qualcosa di legno le forze tornarono come per miracolo.
Era una bara. Una grossa pesante bara.
“Ci siamo!”, sorrise. “Speriamo non ci sia dentro quel che resta del vecchio Long John”.
Spaccò il lucchetto con un colpo secco e quando sollevò il coperchio i suoi occhi s’illuminarono.
Gioielli, dobloni, pietre preziose. Li accarezzò incredulo.
“E ora?”, rifletté Pablo.
Ora doveva rimboccarsi le maniche, ecco cosa doveva fare.
Tornò alla spiaggia senza pensare alla fame che cominciava a fargli brontolare lo stomaco. Prese dei legni e li legò, poi costruì dei remi. Infine, conclusa la sua zattera, si lanciò tra le onde.
Remò per due giorni prima di arrivare all’isola di Tortuga.
Là, con qualche doblone che aveva conservato in tasca, comprò una nave e ingaggiò dei marinai.
Poi tornò all’isola abbandonata e recuperò il tesoro.
Finalmente, ricco e felice, si ritrovò nella migliore osteria di Tortuga a bere e mangiare fino a scoppiare.
Si era ormai dimenticato del suo lavoro da postino e persino della sua fidanzata Sara, rimasta sulla nave.
Sull’isola ormai, per tutti, era diventato Pablo il fortunato.
Un po’ per aver trovato il tesoro.
Un po’ perché, chissà come, era riuscito nonostante tutto a rimanere vivo.
Alex Rebatto
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