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Note a margine di “Sherlock Holmes tra sacro e profano”, con una videointervista da parte de “LA FILOSOFIA DI SHERLOCK HOLMES” e due brani in anteprima

E’ uscito questo mese in edicola il diciassettesimo volume dei Gialli di Crimen, “Sherlock Holmes tra sacro e profano” dedicato agli apocrifi di Sherlock Holmes, presto anche in edizione ebook per Algama. Per l’occasione sono stato intervistato( qui il link) dal gruppo di appassionati sherlockolmesianiLa filosofia di Sherlock Holmes“. Aggiungo alcune note di presentazione e due brani in anteprima dai  testi raccolti nel volume: “Il furto impossibile della corona” e “Sherlock Holmes, Philo Vance e il triangolo imperfetto“.

 

Ho già scritto una storia, “Sherlock Holmes, Padre Brown e l’ombra di Dracula” ambientata a Bergamo ai primi del 900, ma  ne “Il furto impossibile della corona” Bergamo è qualcosa di più che uno sfondo. Ho cercato di rendere l’atmosfera e lo spirito di questa città da me amatissima,  oramai una seconda città natale.

Siamo nel 1903, data storica perché in quell’anno si celebrò il tricentenario della “Festa dell’Apparizione”, ancora oggi  celebrazione sentitissima in città. Il romanzo ruota tutto intorno a questo evento.

Bergamo è nel pieno della contraddizione che si risolverà  solo col Concordato: terra cattolicissima, e dunque obbediente all’anatema lanciato dal Papa contro il Regno d’Italia, è nel contempo la “Città dei Mille” ovvero quella che ha più contribuito  all’ impresa di Garibaldi con il maggior numero di presenze tra le “camice rosse”.

Contraddizione anche visiva: in quell’anno nella piazza simbolo di Bergamo, Piazza Vecchia in città alta,  campeggiava, vicino al Duomo, Santa Maria Maggiore e al Mausoleo di Colleoni, il Monumento a Garibaldi ora trasferito in città bassa nella  Rotonda dei Mille.

All’epoca  Bergamo era  il centro propulsivo dell’economia lombarda, grazie al grande sviluppo manifatturiero e commerciale avvenuto sotto la dominazione austrica. In  pieno centro, sul Sentierone, non si affacciava il Quadriportico Piacentiniano, costruito negli anni 20, ma l’antico complesso della Fiera di Sant’Alessandro, allora la più importante di tutto il Nord Italia.

“Il furto impossibile della Corona” ha come protagonista Auguste Dupin, l’investigatore di E. A. Poe, all’ennesimo duello con il “Fantasma”, diabolico criminale trasformista che questa volta ha messo gli occhi su un preziosissimo oggetto religioso, la “corona dell’Addolorata”, attrazione principale della Festa dell’apparizione.

Sul romanzo grava, però, la figura ingombrante di Sherlock Holmes. Un personaggio chiave della storia,  il sindaco di Bergamo, Conte Belleni, si dichiara non solo idolo dell’investigatore londinese, ma addirittura suo emulo…

Nel finale, Holmes e Watson, quasi inevitabilmente, compaiono in un’inedita forma indiretta…

“Sherlock Holmes, Philo Vance e il triangolo imperfetto“, altro testo incluso nel volume, narra dell’incrocio tra il detective newyorkese creato dallo scrittore da Huntington Wrigt, rampante trentenne, e Sherlock Holmes, settantenne pensionato dedito all’apicultura.

C’è anche Watson che, nonostante sia coetaneo di Holmes, non ha perso la passione per il gentil sesso. Infatti  rimane attratto, in pretesa competizione col più giovane miliardario statunitense, da una bellissima spogliarellista dalla personalità molto particolare…

In questo racconto per la prima volta Holmes si cimenta in un’indagine sedentaria che non doveva particolarmente piacergli: l’analisi e la risoluzione a distanza, senza spostarsi dal suo casolare agreste, di un caso di  omicidio reciproco di due rivali in amore durante una specie di duello western .

Da “Il furto impossibile della corona“:

Il conte holmesiano

Sul piazzale della stazione il conte Giuseppe Belleni li aspettava accanto a una bellissima carrozza con cocchiere in livrea. 

L’eleganza del sindaco, per quanto meno ricercata e più austera, rivaleggiava con quella di Giacosa. 

Nel fisico, invece, i due erano agli antipodi.

Belleni era un uomo minuto e snello, con ancora tutti capelli in testa e il viso pulito, a parte un accenno di baffi. Aveva anche, così a occhio, una decina d’anni in meno del commediografo, e ciò, oltre la corporatura asciutta, gli garantiva un’energia e un’agilità in contrasto con l’impacciata lentezza di Giacosa.

Per vero dire, Belleni diede l’impressione di essere addirittura iperattivo.

Riconosciuti i due ospiti appena ebbero messo piede fuori dal caseggiato della stazione, si slanciò verso di loro per salutarli con vigorose strette di mano che sballottarono entrambi. 

Il conte non aveva mai incontrato neanche Giacosa, e si alienò subito le sue simpatie incentrando le attenzioni su Dupin. 

L’età veneranda del cavaliere, la sua provenienza straniera e – soprattutto – la leggenda “letteraria” che lo accompagnava rendevano la sua visita a Bergamo un evento; tuttavia il sindaco esagerò, facendosi sopraffare dall’entusiasmo per l’incontro con un alfiere dei nuovi metodi d’indagine poliziesca che tanto lo affascinavano.

Cinse infatti amichevolmente col braccio le spalle dell’anziano ospite e, staccandosi da Giacosa, lo spinse di qualche passo verso il viale alberato, fiancheggiato da bei palazzi, che partiva dalla stazione.

In fondo, sulla sinistra di una maestosa basilica, si ammiravano due bassi tempietti paralleli in stile neoclassico cinti da colonnati. Ma soprattutto, in alto, campeggiava uno scorcio della collina affollata da un incastro di torri ed edifici che avevano veduto dal treno.

«Benvenuto nella città dei mille, monsieur Dupin!» esclamò il conte indicando con un ampio gesto del braccio la vista che si parava innanzi.

Il cavaliere lo deluse inaspettatamente, mostrandosi interessato a un particolare più che al colpo d’occhio complessivo.

«Un tram elettrico!» esclamò. 

Indicava sul lato destro del viale la vettura che, con un’antenna protesa ai cavi sovrastanti le rotaie, muoveva lenta verso la stazione.

Belleni ebbe un moto d’orgoglio, facendo prevalere il sindaco sul cultore della moderna detection.

«Be’, questi nuovi mezzi pubblici non sono un’esclusiva delle metropoli come Parigi o Milano! Si accorgerà presto, cavaliere, che la città che mi onoro di rappresentare è all’avanguardia sotto ogni profilo! Abbiamo una funicolare che è un gioiello, e le zone più importanti dispongono di illuminazione elettrica!»

Dupin era in imbarazzo per la gaffe, sfuggitagli peraltro senza intenti denigratori, per la sincera meraviglia di trovar lì una novità tecnologica che non credeva così diffusa. 

Intervenne in suo aiuto Giacosa, avvicinatosi nel frattempo agli altri due, smanioso di rivincita per l’emarginazione subita.

«Ma sì, sappiamo che Bergamo è piena di meriti, oltre a quello d’aver contribuito in modo speciale all’unità d’Italia! Se devo fare un appunto però, il comune non è ancora riuscito a dotarla di un efficace sistema di pubblica refrigerazione: fermi qui sotto il sole rischiamo di andare arrosto! Infatti siamo rimasti veramente in pochi!» aggiunse alludendo alle scarse presenze che si notavano in giro «ma questo dipende dall’ora.»

Il commediografo tirò fuori dal panciotto l’elegante orologio da tasca con catena dorata.

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«Caspita, già la una e un quarto!» esclamò dopo averlo consultato «saranno tutti a tavola!»

«Ha ragione signor Giacosa!» fece Belleni, resosi finalmente conto che la figura peggiore l’aveva fatta lui trascurando l’illustre connazionale «saliamo subito in vettura, a casa ci aspettano per il pranzo… a proposito; mi permetta di farle i complimenti per la sua Bohème» aggiunse con recupero tardivo che suonava insincero «l’ho vista qui al Teatro Donizetti qualche anno fa, con la soprano Emilia Corsi, e l’ho trovata deliziosa…» 

«Tutto merito dell’acustica del vostro teatro. E dell’illuminazione di scena, alimentata – ci scommetto – a elettricità…» lo punzecchiò Giacosa.

«Sì, in quel punto della città la corrente arriva. Ci passeremo tra poco.»

Dupin nel frattempo, muovendosi più veloce del solito per spegnere gli strascichi del doppio “incidente diplomatico”, si era avvicinato alla carrozza. Il sindaco si premurò di aiutarlo a prender posto all’interno. Poi ridiscese, invitando Giacosa a salire a sua volta con un gentilissimo “Prego!”.

Approfittando del fatto che il commediografo dovette risparmiare il fiato per compiere un’operazione sempre macchinosa per uno della sua taglia, aggiunse:

«A proposito di lirica, spero che lei e monsieur Dupin possiate illuminarmi su quanto accaduto alla prima della Scala. Confesso che non ci ho capito nulla…»

Poi salì anche lui, ordinando al cocchiere di avviarsi.

Sia Dupin che Giacosa erano preparati a dover pagare quel dazio. Ingenuo pensare che in provincia il ricordo della serata del ventisei dicembre scorso si fosse sopito.

Come aveva concordato con l’amico, il cavaliere ripropose la versione addomesticata già esposta a sua eminenza Ferrari. Giacosa dubitava che il sindaco, patito com’era delle indagini di Sherlock Holmes, se la sarebbe bevuta facilmente. Soprattutto era assai improbabile che Belleni non avrebbe collegato la presenza di Dupin a Bergamo in quei giorni alla minaccia di un furto della corona dell’addolorata.

«Meglio» l’aveva sorpreso a tal riguardo Dupin poco prima, mentre erano ancora in viaggio sul treno «l’aiuto del sindaco ci sarà prezioso. Potremo valercene senza necessariamente dirgli chi, e come, vuol rubare il cimelio. Ma dobbiamo frenarne la curiosità sul caso della Prima; meglio non accennare in alcun modo al Fantasma.» 

Il sindaco ascoltò senza obiezioni la frottola di una pregressa amicizia epistolare tra Dupin e Giacosa e dell’ospitalità che questi gli aveva offerto per assistere alla Carmen di Toscanini. Palese fu invece lo scetticismo con cui accolse la conferma che l’articolo di Giacosa comparso sul Corriere della Sera del ventotto dicembre era una novella camuffata da resoconto giornalistico. La sua reazione si trasformò in delusa incredulità nell’apprendere che il grande Auguste Dupin non aveva niente da aggiungere alla versione sui fatti di quella sera fornita dagli inquirenti.

Ma la prese nel verso giusto.

«Va bene» commentò «comprendo la sua riservatezza; ci conosciamo appena. Ma spero che possa nascere tra di noi, anche con Giacosa beninteso!» si affrettò a precisare «una duratura amicizia. Quando al reportage sulla festa dell’apparizione, come bergamasco mi lusinga che il Corriere della Sera voglia dedicare attenzione alla ricorrenza. Aggiungo però che, come liberale pur rispettoso della fede cattolica, non ho mai amato la festa. Non ne sopporto il misto di retorica e pretenziosità. Come sindaco poi, e soprattutto quest’anno, la amo ancor meno per le grane che la sua organizzazione crea al comune, anche per la concomitanza con la festa del patrono. A proposito…» s’interruppe «Giambattista, fermati un attimo!» vociò all’indirizzo del cocchiere; poi, mentre quest’ultimo tirava le briglie ai cavalli, aggiunse, rivolto ai suoi ospiti:

«Sulla sinistra potete vedere il complesso della fiera di Sant’Alessandro, il grattacapo principale del sindaco nel mese di agosto!»

Giacosa e Dupin si protesero verso il finestrino.

Si trovavano in una via molto ampia, divisa a metà da una fila d’alberi intercalati da lampioni. 

Lo stradone terminava sul sagrato di una grande basilica. Il sindaco indicava la lunga facciata della costruzione fiancheggiante il lato opposto a quello in cui procedeva la carrozza. 

Balzavano agli occhi, nell’edificio, i teloni che ombreggiavano i numerosi ingressi aperti lungo il muro perimetrale. Alcuni tendoni erano chiusi sul davanti con una tela spiovente fino a terra. 

Era, con ogni evidenza, una sfilata di botteghe in allestimento (malgrado l’ora, si sentivano voci e rumori dietro agli ingressi) in vista dell’apertura al pubblico. Giocosa notò tra i tendaggi tre portoni, serrati, che dovevano dare accesso alla parte interna. 

Bastava fare due conti, moltiplicando per quattro il numero di botteghe presenti su quella facciata (e dentro v’era senza dubbio spazio per altrettante) per comprendere che lo stabile poteva contenere un mercato di notevoli dimensioni.

«Grande, vero?» fece Belleni come leggendogli nel pensiero «eh, la fiera di Sant’Alessandro ha una tradizione secolare. Pensate che prima del ‘700 era fatta tutta di baracche di legno… ha rappresentato la principale attrazione della città e il volano della sua economia nonostante la durata ristretta, dal ventidue agosto – fra poco, mannaggia – all’otto settembre. La prendevano d’assalto decine di migliaia di persone e vi si poteva trovare tutto il meglio, non solo per quanto riguarda il commercio, ma anche lo svago…»

«Perché ne parla al passato?» lo pungolò Dupin.

«Perché oggigiorno sarebbe da buttar giù, questo carrozzone, sostituendolo con qualcosa più degno di una città così prestigiosa!»

«Caspita!» lo beffeggiò Giacosa «lei è un bel rivoluzionario per essere un liberale!»

«Ma quale rivoluzione!» s’infervorò il sindaco «la fiera è un relitto del tempo che fu. L’avvento del Regno d’Italia l’ha affossata. Sotto il dominio austriaco Bergamo ha vissuto una fioritura, tanto da divenire il centro economico di tutto il lombardo-veneto. Così la sua fiera era la fiera per eccellenza, luogo di incontro fra produttori, mercanti e consumatori non solo italiani ma anche del centro Europa. Non fraintendetemi; non dico che noi bergamaschi abbiamo sbagliato a volere con tanto slancio l’indipendenza d’Italia. Ma l’unificazione ha ampliato gli orizzonti e ora di mercati notevoli ce ne sono molti anche altrove, soprattutto nel milanese. La “grande” fiera, orgoglio di questa città, si è tramutata – bisognerebbe prenderne atto – in sagra di provincia. Salvo rimanere comunque, come tutte le occasioni di affollamento, un problema d’ordine pubblico… ne so qualcosa! Vogliamo dirla tutta? Consiglierei la fiera di Sant’Alessandro a chi cerca divertimenti un po’ di grana grossa – saltimbanchi, giocolieri, attori di strada, queste cose qui – e meglio ancora se non disdegna sbevazzare vino di seconda scelta e sollazzarsi con meretrici a buon prezzo, il solo mercato rimasto fiorente… o tempora o mores!» concluse amaro «e pensare che la fiera ha contribuito all’elevazione della città… date un’occhiata da questa parte» e indicò l’altro lato «ecco» continuò, quando Dupin e Giacosa ebbero seguito il consiglio «questo è il Teatro Donizetti, costruito all’inizio del secolo scorso per arricchire la fiera con spettacoli di alto livello…»

Allungando il collo i due ospiti poterono ammirare una facciata neoclassica con un ampio ingresso a portici. La sormontava un terrazzo in marmo con vetrate ad arco alternate a colonne corinzie.

«Più avanti, sempre sulla destra, in quel giardino che si intravede» proseguì il sindaco «c’è un monumento al nostro grande compositore, inaugurato qualche anno fa. Giambattista, procedi piano.»

La carrozza sfilò davanti a un piccolo parco frondoso. Al centro, in cima a una base di marmo davanti a un laghetto, la statua di un uomo signorile, seduto su un sedile semicircolare, rivolgeva lo sguardo alla Musa Euterpe che in piedi davanti a lui suonava la cetra.

«E proseguendo per questa via» disse ancora Belleni «sempre sulla destra s’incontrano, nell’ordine, il palazzo municipale e quello di provincia e prefettura. La chiesa sulla sinistra è dedicata ai santi Bartolomeo e Stefano. Ditemi voi se queste bellezze hanno qualcosa da spartire con la sede bruttarella di una fiera morta…» a quel punto, accorgendosi di aver tenuto fin troppo banco con divagazioni chissà quanto gradite «a proposito; spero che contraccambierete» aggiunse sorridendo «i miei servigi di “cicerone” allietandomi con discorsi altrettanto interessanti…» fece una pausa, poi:

«Soprattutto lei, caro cavaliere, senza nulla togliere agli argomenti su cui potrà erudirmi Giacosa. Non vedo l’ora di sentirla parlare un po’ di Sherlock Holmes. Vi siete conosciuti?»

«Mi spiace signor conte, non ho avuto questo piacere» mise subito le mani avanti Dupin.

Giacosa percepì fastidio nella voce del cavaliere. Ebbe l’impressione che non stesse dicendo la verità. Forse tra lui e l’investigatore londinese qualche contatto, magari solo epistolare, c’era stato. Dopotutto Londra e Parigi non erano troppo distanti. 

In ogni caso era pronto a scommettere che per lui Holmes fosse un argomento di conversazione indigesto, e non si poteva dargli torto. 

Le cronache sulle inchieste del detective britannico avevano cominciato a diffondersi da una quindicina d’anni (Giacosa ricordava bene la prima, dal plateale titolo “Uno studio in rosso”) ma non citavano mai, neppure di sfuggita, Auguste Dupin. 

Che questa dimenticanza, certo voluta, fosse da attribuire al protagonista delle indagini o allo scrittore delle storie, quel Doyle, non cambiava le cose: si trattava di plagio bell’e buono. I lettori avrebbero dovuto essere informati che Sherlock Holmes investigava applicando il metodo sviluppato cinquant’anni prima da Dupin. 

A pensarci bene, Doyle gli sembrava addirittura più colpevole di Holmes. 

La personalità egocentrica dell’investigatore spiegava, pur non giustificandola, l’omissione, ma Doyle ne traeva un vantaggio doppio: oltre a spacciare come nuova una tecnica investigativa inventata da altri, copiava anche l’artificio letterario del biografo di Dupin, ovvero attribuire la paternità della narrazione a un amico, aiutante ed entusiastico ammiratore del detective. 

E poco importava se il medico che svolgeva il ruolo di testimone/assistente nelle inchieste di Holmes esistesse veramente, del che lui peraltro dubitava. 

Doyle rimaneva un imitatore abusivo di Poe, come Holmes lo era di Dupin. 

Questa almeno era la convinzione di Giacosa, per cui gli venne facile dare una mano al cavaliere nel sottrarsi alla passione “sherlockholmiana” del sindaco.

«Suvvia caro conte! Non assilli il cavaliere! Lei ha detto di voler diventare nostro amico, e posso assicurare che entrambi, vero Auguste?» cercò con lo sguardo l’assenso di Dupin che, afferrate le sue intenzioni assentì «non chiediamo di meglio. Ci sarà tempo e modo, in futuro, di approfondire l’argomento. Ma oggi siamo qui per un altro motivo e di questo vorremmo parlare!»

«Avete ragione» convenne il conte, pur a malincuore.

«Peccato però…» aggiunse subito con aria maliziosa «perché gli argomenti hanno qualcosa in comune…» 

«La festa dell’apparizione e Sherlock Holmes?» fece eco un perplesso Giacosa.

Dupin teneva fissi sul sindaco i suoi penetranti occhi azzurri.

«Certo! A Holmes la nostra celebrazione religiosa interesserebbe molto. Avrebbe benissimo potuto riguardare una sua inchiesta. Lui e il dottor Watson non risultano essersi mai mossi dal Regno Unito, ma ce li vedrei a presentarsi a Bergamo il prossimo diciassette agosto!»

«A fare che?»

Era stato il cavaliere a porre la domanda.

«Be’, Holmes è specialista nel risolvere casi di furti d’oggetti pregiati. Basti pensare al “carbonchio blu” e al “diadema di berilli”, ritrovati grazie al suo acume. Credo di non peccare di campanilismo se dico che alla festa dell’apparizione ci sarà un oggetto prezioso unico…» 

«La corona dell’addolorata!» finse d’indovinare Giacosa. 

Belleni annuì.

«La ricorrenza riguarda la storia delle tradizioni religiose ma riveste anche un interesse investigativo, visto che vi si trova un “trofeo” allettante per un ladro ambizioso…»

Una pausa, poi:

«E Holmes è nel suo habitat laddove c’è odore di ladri ambiziosi!» 

«Non posso darle torto…» buttò l’amo Dupin «secondo lei la corona dell’addolorata corre qualche rischio?»

«Assolutamente no!» esclamò Belleni con aria impunita, sicuro di aver spiazzato i suoi ospiti.

Da “Sherlock Holmes, Philo Vance e il triangolo imperfetto”

III

Holmes abitava un rustico in un piccolo gruppo di case circondato, a perdita d’occhio, di campi inframmezzati da boscaglia.

Il rumore dell’auto con a bordo Vance e Watson, del tutto insolito in quel luogo isolato, richiamò l’attenzione degli abitanti delle altre residenze ma, fermatasi  la Rolls Royce davanti al cancello di quella di Holmes, i due visitatori la trovarono senza segni di  presenza umana, come se fosse disabitata.

Sotto l’intatto cielo di maggio, il silenzio agreste era rotto da un ronzare di sottofondo proveniente dal retro dell’abitazione. 

«È periodo di sciamatura!» esclamò Vance, appena sceso a terra. «Il suo amico sarà al lavoro!»

Watson non dubitava che il suo compagno di viaggio fosse ferrato in apicoltura. Di certo non aveva approfondito la materia ex novo, in previsione della loro visita, ma la conosceva da tempo. Forse non aveva mai praticato di persona, e nemmeno visto praticare, l’arte di allevare api, ma si poteva star sicuri che fosse in grado di sostenere una conversazione sull’argomento come un apicoltore provetto.

Il dottore, invece, s’era sempre astenuto dell’andare oltre una conoscenza superficiale. Le api, come aveva ben intuito Holmes, gli incutevano timore, risvegliando in lui le immagini, contenute nei libri di medicina, di malcapitati gonfi di punture per aver sfidato la suscettibilità di quegli insetti.

Non ebbero bisogno di suonare il campanello. Da dietro un angolo della casa sbucò la figura di Holmes.

L’investigatore, con indosso un completo grigio a quadretti da fattore, aveva la sua solita espressione distaccata. Sotto la coppola in tinta il suo viso, nonostante l’età, non era troppo sciupato, grazie alla pinguedine che gli aveva riempito le guance, anche se erano ben visibili zampe di gallina all’angolo degli occhi. 

Il dottore si rallegrò di non trovarlo invecchiato, come temeva, rispetto a sei mesi prima.

«John!» esclamò Holmes, come leggendogli nei pensieri «Cos’è accaduto in questo tempo? La vita di città l’ha fatta decisamente avvizzire!»

Era un’iperbole canzonatoria, ma Watson non potè fare a meno di rabbuiarsi.

«Quanto a lei, signor Vance, complimenti: ci ha azzeccato. Ero giusto al lavoro, nel cortile qui dietro, dove si trova l’apiario, per recuperare due sciami in esodo. Missione compiuta!»

Holmes aveva dimostrato la solita, sorprendente conoscenza di un ospite ignoto, ma Watson era rimasto colpito da altro. 

A quanto ne sapeva, chi si trovava a diretto contatto con gli alveari, come il suo amico sino a un attimo prima, indossava una speciale bardatura, composta, oltre che da una  tuta resistente  e da spessi guanti , da un cappello con falda circolare, da cui scendeva fino agli omeri una maschera in velo di tulle, trasparente, a formare una barriera protettiva tutt’intorno alla testa.

La tenuta ricordava, mutatis mutandis, quella dei palombari. In effetti i pungiglioni delle api erano non meno pericolosi dell’acqua profonda. 

Come mai Holmes, se aveva avuto a che fare con ben due sciami, era privo di protezione?

«La vedo perplesso, dottore» fece Vance.

L’investigatore newyorkese si era liberato con noncalance di cappuccio “alla Nuvolari”, guanti da guida e occhiali affumicati, depositandoli sul sedile, e osservava Holmes col monocolo debitamente incastrato nell’orbita dell’occhio. Non sembrava per nulla stupito che il collega inglese l’avesse riconosciuto malgrado il suo arrivo imprevisto.

«Mi par di capire» proseguì « che lei sia sorpreso perché il signor Holmes è vestito con ordinari» nel tono di Vance si percepiva una punta se non di disprezzo, per lo meno di disapprovazione «abiti da contadino, senza indossare il tipico equipaggiamento da apicoltore. Ne deduco lei ignori, caro Watson, che le colonie d’api in sciamatura sono innocue. Le “operaie” che ne fanno parte si sono rimpinzate ben bene di miele, in previsione che si tardi a trovare un nuovo nido, e per esser subito pronte a produrre cera per i favi una volta trovatolo. Un’ape satolla non riesce a…»

«Quel che dice è corretto, signor Vance, ma temo che a John importino poco i dettagli. Gli basterà sapere che il suo amico non mette scriteriatamente in pericolo la propria vita…»

Watson era frastornato.

«Sembra che voi due vi conosciate da sempre…» osservò.

«Invece non ci siamo mai incontrati prima.» precisò Vance «Anche se io ho letto le indagini del signor Holmes da lei raccontate, dottore, nonostantr trovi il suo stile letterario un po’  troppo disadorno…»

«Per quanto mi riguarda» aggiunse Holmes « conosco solo i titoli delle sue avventure poliziesche, signor Vance, ma non le ho mai lette, per cui mi è impossibile esprimere un giudizio sulla prosa del suo amico Van Dine… Quanto al suo tarlo per il “caso Winston/Barret Livingstone”, non mi stupisce affatto.»

«Holmes!» L’esclamazione prorotta dalla bocca di Watson tradiva tutta la sua  ammirazione. «Come ha fatto a…»

«…indovinare?» La voce di Vance aveva mantenuto il solito affettato tono da salotto. «Conosciamo bene l’acutezza del signor Holmes, ma in questo caso non mi pare che la sua preziosa mente si sia dovuta sforzare.» Diede un’occhiata circolare al paesaggio. «Per quanto ci troviamo nel cuore profondo della campagna del West Sussex, mi pare si debba dar per scontato che i giornali giungano con buona regolarità anche qui. Studiando la cartina stradale, ho visto che a poche miglia da questo ridente villaggio c’è la città di Haywards Heath…Il problema sarebbe stato se il signor Holmes avesse voluto rendere completo il suo romitaggio, rinunciando a leggere le notizie provenienti dal resto del mondo ma, ammesso che ciò fosse possibile per un uomo con la sua sete di sapere, proprio la deduzione sul motivo della mia visita che tanto l’ha  sbalordita, dottore, dimostra il contrario…»

«Sono d’accordo, Vance. John questa volta sta sopravvalutando la mia performance deduttiva. Ho fatto, e posso continuare a fare di molto meglio. Naturalmente non ho perso la buona abitudine di informarmi, e oltre alle necessarie provviste mi faccio portare da Haywards Heath una copia del Times e del Daily Express.»

«Dite quel che volete,» intervenne Watson «ma a me pare comunque notevole che lei, amico mio, abbia previsto che il signor Vance si sarebbe presentato qui per parlare del “caso Winston/Barret Livingstone”, come l’avete chiamato.»

«Invece si tratta di una previsione banale, caro John. Il signor Vance, purtroppo più per la sua eccentricità e l’enorme patrimonio che per le sue qualità investigative, è una celebrità.  Sia il Times sia, più diffusamente, il Daily, si sono occupati della sua trasferta inglese, fin dal primo periodo trascorso a Scarbourogh, per il torneo di scacchi. Non dimentichi che sono appassionato di questo gioco, ed amo seguirne le vicende.»

«D’accordo, Holmes. Riconosco che lei poteva sapere della presenza di Vance nello Yorkshire e poi nella capitale. Ma da qui a…»

«… a ricavarne che sarei venuto fino a questa rozza residenza agreste per discutere col suo amico della vicenda criminale più “a la page”, ce ne passa?»

Di nuovo la voce leziosa dell’investigatore milionario, che lasciava trasparire il suo compatimento per la scarsa sagacia di Watson. 

«Via, John! Non si mostri così sprovveduto di fronte al nostro ospite. La stampa che ho avuto modo di consultare, in maniera più esplicita il Daily rispetto al Times, ha riferito della partecipazione di Vance alla vita mondana londinese, con particolare riguardo alla sua preferenza per il “Piccadilly Night Paradise”.  Secondo me, visto che è un uomo ancor giovane e di bell’aspetto, non un vecchione come noi due, può aver legittimamente aspirato a entrare nelle grazie della Barret Livingstone. È del tutto naturale, poi, che abbia  seguito, con una certa invidia per lo sposo, la vicenda del suo fulminante matrimonio col signor Winston. Ancor più naturale l’interesse per quanto è avvenuto dopo.»

«Ma…»

«…ma non potevo prevedere che avrebbe provato a coinvolgermi in un’analisi di quella triste faccenda?» Holmes si lasciò andare ad una risatina ironica. «Via John! Il signor Vance è molto orgoglioso delle sue capacità investigative, ed ha testé ammesso di conoscere bene le mie imprese in questo campo. Confrontarsi con me,  che vengo ancora ritenuto il miglior detective al mondo,  su un caso criminale tanto clamoroso, dimostrando di essere lui il migliore, cosa di cui il suo ego è assolutamente convinto, anche se con eccessiva fiducia, non rappresenta forse una rivincita adeguata per la “delusione sentimentale” patita? Specie ora che l’agognata preda è tornata libera, e potrebbe, alla luce della straordinaria abilità d’indagine di quel corteggiatore americano, risolversi a corrisponderlo?»

A questo punto veniva per Watson la parte più spinosa.

«Lei sembrava sicuro che il signor Vance sarebbe venuto qui insieme a me…»

Via il dente via il dolore. Il dottore si aspettava che il suo amico sapesse che lui condivideva con Vance l’ammirazione per la Barret Livingstone, al cui spettacolo di spogliarello, abbagliato dalla prima esperienza, era tornato altre volte. I giornali non avevano prestato attenzione alla sua presenza ricorrente, ma Holmes era pur sempre Holmes, ed era in grado di dedurlo con la sua acuminata logica.

«Mi meraviglio di lei, John! A chi altri avrebbe dovuto rivolgersi Vance per mettersi in contatto con me? L’affetto che lei mi porta ha fatto il resto, inducendola a cogliere la palla al balzo per accompagnarlo e così rivedermi.»

Watson tirò un sospiro di sollievo per esser sfuggito ad una censura di Holmes per il suo debole verso una donna che avrebbe potuto essere sua figlia.  

Quanto a Vance, l’occhiata beffarda ma complice che gli aveva lanciato indicava che non lo avrebbe tradito.

Rino Casazza

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Rino Casazza

Rino Casazza è nato a Sarzana, in provincia di La Spezia, nel 1958. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Pisa, si è trasferito in Lombardia. Attualmente risiede a Bergamo e lavora al Teatro alla Scala Di Milano. Ha pubblicato un numero imprecisabile di racconti e 15 romanzi che svariano in tutti i filoni della narrativa di genere, tra cui diversi apocrifi in cui rivivono come protagonisti, in coppia, alcuni dei grandi detective della letteratura poliziesca. Il più recente è "Sherlock Holmes tra ladri e reverendi", uscito in edicola nella collana “I gialli di Crimen” e in ebook per Algama. In collaborazione con Daniele Cambiaso, ha pubblicato Nora una donna, Eclissi edizioni, 2015, La logica del burattinaio, Edizioni della Goccia, 2016, L’angelo di Caporetto, 2017, uscito in allegato al Giornale nella collana "Romanzi storici", e il libro per ragazzi Lara e il diario nascosto, Fratelli Frilli, 2018. Nel settembre 2021, è uscito "Apparizioni pericolose", edizioni Golem. In collaborazione con Fiorella Borin ha pubblicato tre racconti tra il noir e il giallo: Onore al Dio Sobek, Algama 2020, Il cuore della dark lady, 2020, e lo Smembratore dell'Adda, 2021, entrambi per Delos Digital Ne Il serial killer sbagliato, Algama, 2020 ha riproposto, con una soluzione alternativa a quella storica, il caso del "Mostro di Sarzana, mentre nel fantathriller Al tempo del Mostro, Algama 2020, ha raccontato quello del "Mostro di Firenze". A novembre 2020, è uscito, per Algama, il thriller Quelle notti sadiche.

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