
Moby Dick è uno straordinario romanzo di Herman Melville, capolavoro della letteratura mondiale che ripropone in chiave moderna il genere “epico” della classicità. Pur essendo una storia marinaresca ( è famosa a tal punto che non serve richiamarne la trama) il suo spessore va ben oltre i racconti di mare. Del romanzo esiste una notevole versione cinematografica del 1956, con John Huston alla regia e Gregory Peck nei panni del Capitano Achab. Per inciso questo film è stato criticato per le numerose infedeltà al testo di Melville, ma lo sceneggiatore, nientemeno che lo scrittore Ray Bradbury, autore del (giustamente) celebrato Farenheit 451, e Huston ne hanno saputo cogliere lo spirito, con un esito che si segnala non solo per gli effetti speciali, ancora oggi ammirevoli, ma per la linearità nel proporre il registro a doppia lettura, marinaresco ed epico.
Ron Howard, divenuto regista hollywoodiano di punta dopo una carriera da attore non ai vertici ma comunque di spessore (qui in Italia è amatissimo dal pubblico televisivo per l’interpretazione di Richie Cunnigham nella serie “Happy days) ha alle spalle un consistente numero di prove direttoriali di qualità. Non ci riferiamo tanto al pur bello “A beautiful mind”, premio Oscar 2002, quanto alle pellicole, a partire da “Cocoon, l’energia dell’universo” per passare attraverso “Apollo 13” fino ad arrivare alla serie tratta dai romanzi di Dan Brown, in cuii riesce a trovare una misura elegante fra spettacolarità, con ricorso spinto agli effetti speciali, e attenzione ai risvolti umani e “meditativi”. Personalmente continuo ad avere un debole per un suo film del 1991, “Fuoco assassino”, in cui riesce a dirigere un cast stellare ( De Niro, Baldwin, Sutherland) approfondendo il tema del morboso fascino che suscitano gli incendi. Straordinaria la figura del piromane patologico, impersonata, ovviamente, da Sutherland.
In The Hearth of The Sea- Le origini di Moby Dick, Howard si supera.
Precisiamo che non si tratta di una trasposizione del libro di Melville, bensì della storia vera, persino più incredibile del romanzo, che ispirò il romanziere statunitense.
C’è la gigantesca balena bianca, naturalmente, messa in scena con realismo mozzafiato nei suoi mortali duelli coi marinai della “Essex” ( la melvilliana Pequod), ma molto di più.
La suggestiva rappresentazione della vita quotidiana in una baleniera navigante in pieno oceano a metà ottocento, certo, ed anche il classico dualismo tra Capitano e Secondo Ufficiale, succo di molte storie di mare. Ma soprattutto la capacità, sorprendente, di rilanciare rispetto a Melville, costruendo un epopea in cui la lotta tra l’uomo e la natura cieca, simboleggiata dal mostro marino, è solo un pezzo del grande dramma della sopravvivenza, in cui la natura umana mostra un estrema precarietà ma, nel contempo, una insospettabile, terribile forza.