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Matteo Messina Denaro, due domande al Ros sull’arresto

Sull’arresto di Matteo Messina Denaro restano aperti alcuni interrogativi. In particolare sul suo primo trasporto alla caserma San Lorenzo di Palermo. E su quei video che fanno pensare ad una soffiatamatteo messina denaro

Su Matteo Messina Denaro il generale del Ros dei carabinieri Pasquale Angelosanto ha rilasciato un’intervista a Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera. L’alto ufficiale si è risentito per chi avanza dubbi sulle modalità di cattura del latitante: «Chi pensa a trattative segrete o addirittura a una consegna concordata umilia gli investigatori e i magistrati che per anni hanno lavorato giorno e notte per catturare Matteo Messina Denaro».

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Per tale ragione ha voluto dettagliare l’operazione che ha portato alla cattura del ricercato numero uno raccontando un’indagine degna della miglior trama di un thriller:

«Grazie a indagini e intercettazioni sapevamo di quali patologie soffriva Messina Denaro e abbiamo fatto partire le verifiche. Ci eravamo insospettiti perché in determinati momenti i suoi familiari avevano comportamenti anomali. All’improvviso annullavano impegni già presi, spegnevano i telefoni, diventavano irrintracciabili e dunque abbiamo pensato che questo potesse accadere in occasione di interventi chirurgici o comunque di cure mediche particolari. A quel punto ci siamo concentrati sui database sanitari e siamo andati su obiettivi mirati». 

Che vuol dire?
«Abbiamo cercato nelle province di Agrigento, Palermo e Trapani la lista di chi aveva oltre 55 anni e si stesse curando, anche con l’acquisto di farmaci specifici, per queste patologie. Abbiamo incrociato i dati e ottenuto una lista di circa 150 codici. Ci tengo a dire che non è mai stata violata la privacy dei cittadini perché abbiamo lavorato su codici, non su nominativi. Soltanto quando la cerchia si è molto ristretta abbiamo avviato le verifiche personali. E agli inizi di dicembre siamo arrivati a Bonafede. Il 29 dicembre ha prenotato una visita per il 16 gennaio. Ci siamo preparati per intervenire. Il soggetto corrispondeva anche perché appartenente a una famiglia mafiosa vicina al padre di Matteo Messina Denaro, ma c’era un’anomalia evidente».

Quale?
«Quando aveva l’appuntamento fissato spesso era da un’altra parte. Il suo telefonino si trovava a Campobello. E questo è successo anche lunedì scorso. Poco prima della visita il vero Andrea Bonafede era a casa sua. A quel punto abbiamo fatto scattare l’operazione con oltre 150 uomini, la maggior parte dentro e fuori la clinica. All’orario fissato abbiamo chiuso i cancelli e controllato tutte le persone che erano all’interno. Il signor Bonafede si è sottoposto a tampone e poi si è diretto verso il bar. In quel momento è stato fermato». 

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Matteo Messina Denaro, un latitante particolare

Certo è che un latitante come Matteo Messina Denaro non si era mai visto. Non si nascondeva in casolari di campagna sperduti come Bernardo Provenzano, non aveva guardie mafiose al suo fianco, come Totò Riina. Non faceva nemmeno vita isolata: andava al bar, pure con camicie “sgargianti” come scrive Il Messaggero e orologio al polso da 30 mila euro. Roba che si notano, insomma, soprattutto in un paese con meno di 12 mila abitanti, che è tutt’altro che una metropoli. E dove è facile che tra famiglie, amici e parenti si conoscano un po’ tutti.

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La sua è stata una latitanza più alla Luciano Lutring, il solista del mitra, uno che in galera di boss di Cosa Nostra ne aveva conosciuti tanti e che nel corso della sua ultima intervista mi raccontò: «La mia latitanza è durata sette anni, ma non sarei mai riuscito a farla come i mafiosi, nascosti nelle cascine per quarant’anni come Provenzano. Io ero in giro a mangiar ostriche e salmone. Cicoria  l’ho mai mangiata. Questione di mentalità».

Ecco, anche Matteo Messina Denaro pare uno ostriche e salmone.

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Tuttavia, la latitanza del capomafia differisce perfino, e non poco, da quella dell’ex bandito: non solo, infatti, è stata portata avanti alla luce del sole, pur essendo noto che c’erano centinaia di militari e poliziotti sulle sue tracce. Non solo è stata esibita nel lusso e a due passi da casa, in centro a Campobello di Mazara. Ma è stata anche immersa nel quotidiano delle code alle Asl, dei numerini per il turno all’ospedale, tra i selfie con gli infermieri e i messaggi Whatsapp con le altre pazienti. Finora gli hanno trovato tre covi, tutti a Campobello. Se c’è rimasto trent’anni, a sei mesi per volta, rischia di aver abitato in tutte le vie della città.

Ebbene, possibile che nessuno, tra le tantissime persone che lo hanno incrociato tra ospedali, bar, vicinato, perfino feste, si sia accorto di nulla in 30 anni? Che fosse quantomeno strano che un ricco “forestiero” in abiti “sgargianti” cambiasse di continuo abitazione all’interno dello stesso paese da meno di 12 mila abitanti?

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La provincia di Trapani è poi al terzo posto in Italia per denunce per estorsioni. Reati pesanti, non cose da poco: possibile che nessun delinquente da quattro soldi si sia mai “ingolosito” vedendo un tizio sbucato dal nulla, vestito in maniera sgargiante che girava serenamente con un orologio al polso da 30 mila euro in un paese di meno di 12 mila abitanti?

Vien da pensare che lo conoscessero tutti. E che certamente lo conoscessero almeno dal primo all’ultimo criminale: dal ladro d’appartamento al piccolo spacciatore.

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Il dubbio

Così, a dirla tutta, se non ci fosse la complessa trama sulla sua cattura, spiegata meticolosamente dal generale Angelosanto, verrebbe più naturale pensare ad una soffiata, fatta (per ragioni ignote) ai carabinieri della compagnia territoriale, in cui si spiegava che quel medico, il signor Andrea Bonafede, altri non era che il latitante che tutti cercavano.

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Questo dubbio, suggestivo e tutt’altro che documentato, viene tuttavia instillato anche dall’inspiegabile comunicazione del Ros sull’arresto del boss, che forse meriterebbe qualche parola in più da parte del generale per fugare i dubbi dei malpensanti.

Due domande

A Fiorenza Sarzanini, il generale Angelosanto racconta infatti di aver aspettato l’esito dell’operazione dell’arresto «al comando legionale in attesa della telefonata. Dall’avvio dell’operazione alla cattura sono trascorsi novanta minuti, i più lunghi della mia vita».

E questo stupisce non poco: perché Matteo Messina Denaro, subito dopo l’arresto, non è mica stato portato al comando legionale, com’era accaduto ad esempio con Totò Riina.

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Non è stato portato lì, al comando legionale, dove c’era il generale Angelosanto che lo cercava da anni e in fremente attesa.

E nemmeno Matteo Messina Denaro è stato portato al comando provinciale di via Mura di San Vito.

No, il boss è stato tradotto alla caserma della compagnia territoriale di San Lorenzo che, in linea d’aria, è distante dalla clinica La Maddalena più o meno come le altre due.

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Matteo Messina Denaro esce dalla caserma di San Lorenzo senza manette. Più sotto, il suo autista, l’agricoltore incensurato Giovanni Luppino, viene portato via in manette dal Ros

Ma come, ci si domanda allora, il generale attende l’esito dell’operazione al comando legionale dopo anni che gli dà la caccia e il primo posto dove viene portato il boss dopo l’agnognato arresto è la compagnia territoriale a cinque chilometri da dove sta lui?

E quindi dobbiamo pensare che, incredibilmente, sia stato il generale a scomodarsi e ad andare incontro al capomafia alla caserma di San Lorenzo?

La seconda domanda è consequenziale: il primo video di Matteo Messina Denaro diffuso dai carabinieri, quello che ha fatto il giro del mondo e che sarà ricordato a imperitura memoria, non è quello dell’arresto del boss (uscito solo molte ore più tardi) con i militari del Ros celati dal mefisto.

Ma quello in cui il capomafia esce dalla caserma di San Lorenzo senza manette, scortato da due militari, un uomo e una donna, a volto scoperto. Come ci mostrano i giornali stranieri:

 

E la domanda è dunque logica: ma come, il Ros fa un’indagine di anni e anni, così complessa che sembra la trama di un thriller di Dan Brown, dispiega nell’operazione 150 uomini… e poi le prime foto e i primi filmati diffusi dai carabinieri che fanno il giro del pianeta immortalano la compagnia territoriale di San Lorenzo, come se il merito fosse il loro?

E ci si gioca un merito tanto importante così, davanti all’opinione pubblica mondiale, solo perché la caserma territoriale è più vicina delle altre due all’aeroporto Boccadifalco di appena tre chilometri?

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Peraltro, non so voi, ma se io vivessi all’estero e vedessi il ricercato numero uno da 30 anni scortato senza manette da due carabinieri a volto scoperto, penserei subito che quel tipo non solo non comanda più nulla, ma non fa nemmeno più paura a nessuno.

Edoardo Montolli

blank Il grande abbaglio. Controinchiesta sulla strage di Erba blank

 

 

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Edoardo Montolli

Edoardo Montolli, giornalista, è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi (Aliberti, 2009), tuttora spesso al centro delle cronache, ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi vent'anni. Dal 1991 ha lavorato con decine di testate giornalistiche. Alla fine degli anni ’90 si occupa di realtà borderline per il mensile Maxim, di cui diviene inviato fino a quando Andrea Monti lo chiama come consulente per la cronaca nera a News Settimanale. Dalla fine del 2006 alla primavera 2012 dirige la collana di libri inchiesta Yahoopolis dell’editore Aliberti, portandolo alla ribalta nazionale con diversi titoli che scalano le classifiche, da I misteri dell’agenda rossa, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti a Michael Jackson- troppo per una vita sola di Paolo Giovanazzi, o che vincono prestigiosi premi, come il Rosario Livatino per O mia bella madu’ndrina di Felice Manti e Antonino Monteleone. Ha pubblicato tre thriller, considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia (Hobby & Work 2005/ Giallo Mondadori 2008), La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007) e L’illusionista (Aliberti, 2010). Il suo ultimo libro è I diari di Falcone (Chiarelettere, 2018)

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