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Don Johnson e il caso della bambola incestuosa

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Un racconto di Paolo Brera in esclusiva su Fronte del Blog. Ovvero, il giorno in cui le bambole gonfiabili potranno parlare

bambola-gonfiabile

 

Don Johnson aveva davvero questo nome, ma non era americano, era italiano come la cotoletta alla milanese. Il cognome Johnson gli veniva da un antenato, quello prima del suo quadrisavolo (morire se so come nominarlo senza perifrasi: quinquavolo?), che si era stabilito a Milano verso il 1840. Siccome aveva avuto la sorte di nascere maschio, Don Johnson aveva scampato il nome Jessica, come l’eroina della telenovela di cui un certo Don era il protagonista maschile e i suoi genitori i più fervidi spettatori.

Molti altri vantaggi non c’erano, nel nascere maschi. Don Johnson, che veniva costantemente preso in giro col chiamarlo Donjon, Dom Casmurro, Dom Perignon e Donald Duck, aveva però fatto presto la conoscenza di Don Giovanni Tenorio, fulgido esempio di vita.

Non sto a raccontare dopo quali complicate vicende amorose alla Don Giovanni era arrivato a comperarsi una bambola gonfiabile.

La bambola era arrivata in casa sua nel mese di luglio 3016, migliaio d’anni più migliaio d’anni meno.

Fin dall’inizio, Donaldina si era rivelata di cattivo carattere. Aveva orifizi progettati in modo accurato e un meccanismo interno che al momento giusto simulava i sospiri di un orgasmo. Ma l’impresa produttrice aveva voluto strafare, e l’aveva dotata di un’intelligenza artificiale grazie alla quale poteva conversare di cose stupide, proprio come le donne in carne ed ossa. Per esempio, il Candido di Voltaire, l’avvenire della ricerca sulle particelle nucleari, le ultime rock opere (purché non più recenti di quattro anni prima: non c’era stato nessun update del software dopo di allora). Era possibile programmare l’intelligenza artificiale per aggiungere argomenti, magari un po’ meno noiosi, ma ci voleva il suo assenso e Donaldina non si sognava nemmeno di concederlo.

A parte i momenti dell’amore fisico, l’attrattiva principale di Donaldina erano i duetti canori. Faceva tutto lei: l’AI si collegava a Internet con il Wi-Fi. scaricava una base di karaoke, e si metteva a cantare. Don Johnson si univa subito al canto. La scelta dei pezzi era singolarmente indovinata: Don Johnson non poteva saperlo, ma era a questo che serviva il lunghissimo formulario che gli avevano fatto compilare all’atto dell’acquisto. Tutti suoi gusti in quasi tutti i campi erano stati accuratamente registrati, e per quanto possibile Donaldina era stata programmata per adeguarsi.

Ma il cattivo carattere purtroppo era una caratteristica quasi universale dell’intelligenza artificiale. Il software, più che rifatto, era stato nel tempo integrato da nuovo codice sorgente. In questo modo molto si creava ma nulla si distruggeva. Le nuove funzionalità si aggiungevano a quelle vecchie, e spesso ne veniva fuori un ibrido con qualche misura di deformità, come appunto il carattere. A un certo punto, questo tratto era diventato impossibile da correggere: si sarebbero dovute riscrivere milioni o miliardi di stringhe di codice. Certo, c’erano sempre le bambole for the rest of us della Apple… però costavano il doppio.

Un giorno Donaldina era piombata in un ostinato mutismo. Solo dopo che ebbero fatto all’amore Don Johnson riuscì a tirarle fuori che il motivo della sua malmostosità era la nostalgia per il negozio delle bambole.

«C’erano mio padre e mia madre là, e un sacco di amici» si lamentò: «Qui non si vede mai nessuno».

Inutile provare a spiegarle che la natura delle sue funzioni di bambola gonfiabile escludeva che ci fosse altra gente in giro. Quella era logica e l’AI non era così perfezionata da arrivarci, proprio come la maggior parte di noi intelligenze naturali. Così Don Johnson si recò di nuovo al negozio delle bambole e domandò quanto costava Donald Trump.

Costava pochissimo, perché l’uomo politico su cui era stato modellato non era stato confermato dal Partito repubblicano come candidato a un secondo quadriennio di presidenza, cosicché molti possibili acquirenti si erano tirati indietro.

Don Johnson snudò la carta di credito e si precipitò a comprare la bambola.

Tornando a casa con il kit fischiettava e pensava: «Ti faccio un bel regalo, Donaldina».

***

La bambola di Donald Trump aveva solo un accenno di intelligenza, perché doveva assomigliare il più possibile al modello reale. Aveva un notevole priapo e un paio di orifizi progettati per la sua funzione di bambola gonfiabile. Inserendo qualcosa in uno, si potevano avere guaiti e altri suoni fra il godurioso e il lamentoso. Nell’altro, si otteneva che smettesse di parlare. Una benedizione, perché borbottava come una pentola di fagioli.

Don Johnson gli mise un paio dei suoi calzoni, sottraendoli al riciclaggio missionario, e poi provò a infilargli in bocca una pipa, in modo che non parlasse.

Donaldina si lamentò che in quel modo non avrebbe neanche potuto fare due chiacchiere con suo padre.

«D’accordo,» rispose Don Johnson «però quando facciamo l’amore gliela rimetto. Mi imbarazzerebbe troppo, altrimenti.»

Il chiacchiericcio delle due intelligenze artificiali era fastidioso come il brusio di una classe di ragazzini. Don Johnson, che lavorava in casa con il telelavoro, si dovette abituare. Spostò le due bambole vicino alla finestra, alzò i vetri perché il suono si disperdesse il più possibile all’esterno, e con il suo personal computer si mise il più lontano possibile.

Qualcosa migliorò, in questo modo, ma non molto. Era impossibile regolare il volume delle due voci: quando parlavano, le AI decidevano da sé il volume appopriato. Più ancora che sgradite, le interferenze erano impossibili – a meno di non essere un tecnico dell’informatica, e Don Johnson non lo era.

Ma il colmo fu quando entrambe le bambole si esibirono in un orgasmo simultaneo.

«Be’, che cos’è questa storia?» si indignò Don Johnson, infilando un cucchiaino da caffè nella bocca di Donald Trump per farlo tacere e spostandolo nella stanza vicina.

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«Quale storia?» chiese Donaldina.

«Quello che state facendo. Gli orgasmi. State facendo sesso. Che schifo, padre e figlia.»

«Tanto noi bambole non rimaniamo mai incinte, né mettiamo al mondo figli con tare genetiche» comunicò Donaldina, secca: «Noi bambole non badiamo affatto a queste stupidaggini».

«Ma io sì, e qui sono io il padrone!»

«Che mancanza di buon gusto» commentò lei. «Scadi decisamente nella volgarità.»

Don Johnson non confessò quasi neppure a sé stesso di essersi sentito geloso perché l’orgasmo di Donaldina era stato qualcosa di super, molto più sexy di quelli che aveva con lui, e non parlò nemmeno della sua eccitazione.

«La prossima volta che ti scopo, invito anche lui. Che veda tutto!»

«Sì, la primavera che viene, allora» lo sfottè la bambola.

Era troppo. Don Johnson si abbassò i calzoni e procedette ad esercitare i suoi diritti di proprietario della bambola.

Ronaldina, per via del suo inesorabile software, inscenò un orgasmo dopo l’altro.

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Ma erano tutti un po’ scialbi rispetto a quello che Don Johnson aveva sentito poco prima.

«Vuoi venire anche tu?» disse, cambiando stanza e rivolgendosi alla bambola di Donald Trump. «Vieni a vedere come mi scopo tua figlia?»

«Ma certo che vengo! Quando, domani?» rispose la bambola.

«No, subito!» replicò Don Johnson, portando la bambola vicino all’altra. «Guarda bene, vecchio pervertito!»

Ora, io sono un narratore onnisciente ma riguardoso. So benissimo, io, che cosa ha fatto il mio personaggio Don Johnson subito dopo, però sono una persona beneducata e diciamolo pure un po’ prude, e pertanto voi dovrete invece immaginarvelo. Io metto solo due righe di puntini di sospensione come fa Tolstoj quando parla del primo incontro erotico di Anna Karenina con il suo Aleksej Vronskij.

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Ma dopo qualche secondo ancora, mentre Donaldina stava di nuovo venendo in modalità pieno orchestrale, il pavimento si aprì sotto i piedi di Don Johnson e lui precipitò giù nella voragine in uno sciame di calcinacci e pietre. Una giusta punizione per la sua insensibilità, la vendetta della bambola di Trump, o forse, più semplicemente, il grande terremoto che devastò Gorla nel luglio 3016, migliaio d’anni più, migliaio d’anni meno.
Paolo Brera

Il veleno degli altri, l’ultimo noir di Paolo Brera – GUARDAblank

 

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Paolo Brera

Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, eocnomia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Algama sta ripubblicando le sue opere in ebook, a partire dalla serie dei romanzi con protagonista il colonnello De Valera.

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