
Verso la fine del Cinquecento, migliaia di donne in Europa furono suppliziate, torturate e condannate per stregoneria. La chiesa, giudice del bene e del male, si accanirà contro il mondo enigmatico e inquietante della stregoneria, e crederà di riconoscervi il grugno mostruoso di Satana.
Fra il 1330 e il 1340, attraverso le confessioni di alcune streghe torturate, si ebbe notizia del primo Sabba. Il termine Sabba, etimologicamente simile a sabato, non ha nulla a che vedere con il sabato della tradizione ebraica, ma si suppone invece che il termine derivi dal verbo “s’esbattre” (sollazzarsi), definizione particolarmente adatta alla gaiezza e festosità dei convegni. “Il vero Paradiso, dove si provano piaceri tanto grandi da non potersi descrivere a parole: per quelli che lo frequentano il tempo trascorre così veloce tra ogni specie di divertimenti, che il ritorno a casa è un vero e proprio dispiacere.” Ogni tre mesi, il 2 febbraio, il 1°maggio, il 1°agosto e l’11 novembre, in luoghi prestabiliti, le congreghe di Streghe si radunavano in grandi Sabba per eseguire i loro riti e le loro danze. E qualsiasi donna poteva venire accusata di aver partecipato a un Sabba.
Come successe a Daniela, una giovanissima orfana.
Daniela era una trovatella che crebbe presso l’Ospizio di Santa Orsola a Sondrio e poi venne adottata da Bartolo e Franceschina Ravasio Della Sghembri, una coppia piuttosto benestante che abitava in un piccolo paese di provincia: Zardino. Daniela era schiva e ubbidiente, aiutava i poveri, assisteva i malati e rispettava i genitori. Questi non la trattavano come una serva, secondo quanto succedeva allora alle bambine adottate, ma come una principessa. Era così bella che un pittore ambulante la ritrasse nelle vesti della Madonna con il bambino.
Un pomeriggio di pioggia, giunse a Zardino un nuovo parroco, don Terenzio, che cominciò a tuonare contro il Diavolo e i parrocchiani miscredenti che non pagavano le decime alla chiesa. Daniela non frequentava molto la chiesa e spesso se ne andava in giro da sola. Un giorno, arrivarono un gruppo di lanzichenecchi, che invasero il paese con i loro schiamazzi, bevendo e mangiando a spese del villaggio. Mentre il parroco se ne stava barricato in casa, Daniela, per nulla intimorita, si mise perfino a ballare con uno di loro. Da quel momento divenne l’eretica, colei che aveva ballato con il diavolo.
L’accusa vera e propria di essere una strega le venne mossa da due sorelle Vincenza e Artemisia Morellini, gelose della bellezza di Daniela. Queste avevano un fratello, Giorgio, sofferente di una malattia psicotica e perdutamente innamorato di Daniela. Convinte fosse stato irretito dalle arti magiche della ragazza, le comari decisero di riferire tutto a don Terenzio. Il parroco la denunciò all’Inquisizione e il caso si aprì.
Della faccenda si occupò l’Inquisitore Manini, un uomo freddo e ambizioso, profondamente misogino. Cominciò la sua requisitoria attaccando la bellezza di Daniela come prova di eresia e malvagità. Il giudice si trovò di fronte un gruppo di accusatori assolutamente compatto. Quasi tutti nel villaggio, parevano convinti che la ragazza fosse una strega, dichiarando di averla spesso udita criticare il clero: “A far crescere il grano vale più un carro di letame che le preghiere del prete” avrebbe detto un giorno.
I genitori e pochi amici assistevano inorriditi alle accuse, ma i contadini temevano che Daniela “la strega” potesse danneggiare ancor di più i loro raccolti, ormai compromessi dalla siccità. Superstiziosi e ignoranti, pensavano così di scongiurare il pericolo della carestia. L’Inquisitore tuttavia esitava. Finché venne trovata, per una coincidenza davvero diabolica, la prova schiacciante contro la ragazza. Biagio, il sagrestano, andò dall’Inquisitore giurando di aver visto Daniela sotto l’albero del Pioppo in compagnia di altre donne e…del Diavolo. Quella notte stessa, e fu questa la coincidenza, morì il piccolo nipote di Biagio, da tempo molto malato. Era la notte del Sabba.
Riascoltato dal giudice, Biagio aggiunse altri particolari: insieme a Daniela vi erano altre donne del paese, le quali, danzando completamente nude offrirono al Diavolo un bambino appena nato, chiamandolo con il nome del nipote. Convocandola all’istante, l’Inquisitore interrogò la ragazza per ore Lei negò sempre di essere una strega ma, sincera e senza malizia qual era, ammise di essere andata, di notte, sotto l’albero del pioppo a incontrare un “moroso” che le aveva promesso di sposarla. Il giovanotto in questione era un forestiero, una specie di ladruncolo che girava di paese in paese, ma da un pezzo non si era più fatto vedere. Venne convocata anche Teresina, un’amica di Daniela, la quale confermò questa versione. Il giudice, assai scrupoloso, non volle tralasciare nulla. Provarono a cercare il ragazzo, ma invano. Così il bellimbusto fu “trasformato” nel Diavolo stesso.
Le prove contro Daniela a quel punto erano ormai schiaccianti. Sottoposta a tortura, non confessò mai di essere una strega e questa resistenza fu interpretata come ulteriore conferma dell’avvenuto patto diabolico. Era l’agosto del 1690, e Daniela venne portata al supplizio vestita con una veste rossa su cui erano cucite due grandi croci bianche. Aveva 14 anni appena. Il boia, impietosito, prima di infilarle il cappuccio sulla testa e accendere le fascine le diede da bere una pozione che l’avrebbe stordita. E mentre il rogo ardeva i contadini gridavano: “Evviva evviva, la strega è bruciata”
Il giorno dopo, raccontarono le cronache, piovve come non si era mai visto. Il Sesia straripò, e travolse il paese di Zardino. Quando il diluvio cessò, Zardino era scomparso, spazzato via da un mare di fango.
Per oltre due secoli le donne accusate di stregoneria continuarono a venir arse sui roghi, fra l’indifferenza e l’esultanza del popolo e l’approvazione degli inquisitori e dei potenti. Vittime o capro espiatorio, non scrissero la propria storia, nessuna di loro lasciò traccia se non nei documenti dei processi redatti, dai persecutori.
Che tracce può mai lasciare la cenere?
Paola Mizar Paini
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Rino Casazza intervista Paola Mizar Paini
Rino Casazza intervista, per Fronte del Blog, Paola Mizar Paini, scrittrice pavese di storie poliziesche (“Angeli Innocenti” e “La casa delle ombre”, Frilli Editore; “Emily, storie dal passato”) calate in atmosfere inquietanti di stampo gotico. Paola ci svela i misteri soprannaturali e le leggende legati ad una presunta “casa maledetta”, delle sue parti, Villa Cerri, su cui si sono molto dilungati anche i giornali. Di questi angosciosi segreti Paola sarebbe stata anche direttamente testimone. Niente di più facile, visto che la sua stessa nascita – come racconta – è avvenuta in circostanze che sconfinano nell’esoterico…
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