Lo scorso 26 marzo, in un’intervista all’anestesista di La Spezia Mario Martinetti, dirigente medico di Terapia del dolore a Cure Palliative, emergeva chiaramente, tra le criticità dell’epidemia da coronavirus, allora nella fase acuta, il problema della cura farmacologica dei malati in forma lieve, i c.d. “paucisintomatici”.
Nella situazione drammatica di quei giorni ( ci trovavamo in pieno “hard lockdown”, con le vie delle città deserte) gli ospedali dovevano far fronte ad un’ondata di malati gravi, molti dei quali, troppi per le risorse disponibili, bisognosi di ricovero in terapia intensiva. Non c’era tempo di assistere i “paucisintomatici”; agli stessi veniva prescritto l’isolamento domiciliare con assunzione di sola tachipirina, noto farmaco che attenua il sintomo della febbre. In moltissimi casi i “paucisintomatici” non riuscivano neppure a entrare in contatto telefonico coi presidi sanitari, oberati di lavoro.
Nell’intervista citata, il dr. Martinetti faceva notare che le notizie provenienti dalla Cina, in cui durava ancora il primo focolaio della pandemia scoppiato nella metropoli di Whuan, indicavano che la sanità cinese aveva posto una particolare attenzione all’assistenza dei “paucisintomatici”, sotto due profili.
Primo: i “paucisintomatici” non venivano lasciati presso il proprio domicilio, ma accolti in grandi ospedali di medicina “ordinaria”, non “intensiva”, appositamente impiantati e attrezzati d’urgenza;
Secondo: i “paucisintomatici” venivano curati con terapie farmacologiche specifiche, allora ritenute importanti. Il motivo dell’impegno cinese nell’assistenza dei malati non gravi, spiegava sempre il dr. Martinetti, dipendeva da due ragioni:
- una parte rilevante di “paucisintomatici”, invece di guarire spontaneamente, tendeva a sviluppare forme più gravi di malattia;
- una parte rilevante di “paucisintomatici”, peggiorati anche e soprattutto per mancanza di adeguate cure nelle prime fasi della malattia, tendeva a necessitare di un ricovero in strutture di terapia intensiva, estrema o semi-invasiva. Queste malauguratamente, per la velocissima e incontrollata estensione del contagio, erano già occupate oltre i limiti della recettività, e non potevano assorbirli.
Benché durante la prima ondata fossero stati realizzati a tempo di record, ad esempio a Milano e Bergamo, nuovi presidi sanitari di terapia intensiva dedicati a pazienti gravi, il dr. Martinetti consigliava di intraprendere la stessa strada della Cina, approntando al più presto strutture ospedaliere ad hoc per paucisintomatici da covid 19. In assenza di ciò, si era adoperato a diffondere sui social network le informazioni che al momento erano ritenute più adatte per la cura farmacologica dei “paucisintomatici”. Destinatari di tale informativa erano i colleghi che svolgevano funzione di medico di famiglia, ovvero l’unico diffuso presidio di medicina territoriale presente nel nostro sistema sanitario. L’emergenza per la diffusione nel nostro paese della la sars cov 2 si è significativamente allentata dal mese di maggio in poi, al punto che il professor Alberto Zangrillo, esperto di terapia intensiva, e primario di quella specialità al San Raffaele di Milano, con una dichiarazione che ha fatto e continua a far discutere, ha potuto affermare , sulla base della esperienza clinica sua e degli altri colleghi “intensivisti”, che al 31 maggio i ricoveri in rianimazione per sars covid 2 erano pressoché completamente scomparsi.
Come tutti ben sappiamo, purtroppo dal mese di settembre l’epidemia ha avuto una rapida ripresa, che ci ha portato alla situazione attuale, in cui è in atto una vera e propria seconda ondata del contagio.
In un precedente post del 9 novembre abbiamo evidenziato che, in base ai dati statisti forniti dalle autorità sanitarie, la prima e seconda ondata non sono assimilabili come andamento ed effetti. C’è, innanzitutto, l’ovvia differenza, non di poco conto, che la prima ondata ha colto totalmente impreparato il nostro sistema sanitario, costretto ad affrontare una malattia sconosciuta in rapidissima crescita, mente siamo stati in grado di percepire più prontamente l’inizio della seconda ondata , e cercare di provi rimedio prima che raggiunga livelli di gravità intollerabili.
Premesso che , sempre come illustrato nel post del 9 novembre, il problema del covid 19, non è, dati epidemiologici alla mano, l’alta letalità né l’alta mortalità della malattia, va rilevato che, dal punto di vista di questi due indicatori, la seconda ondata è, almeno sino ad adesso, meno grave della prima. Non solo: la seconda ondata sta facendo registrare, sia a livello regionale che nazionale, un indice di riproduzione di base, o quoziente r t, misura della velocità di propagazione del contagio, inferiore a quello di marzo/aprile.
Veniamo ora a confrontare le due ondate dal punto di vista della vera criticità della pandemia da covid 19 ovvero, lo stress a cui sottopone la sanità pubblica. Come oramai sperimentato in tutto il mondo, e segnatamente in Cina al primo apparire della malattia, il diffondersi della sars covid 19 genera un sovraccarico insostenibile nella rete sanitaria statale, incapace di fronteggiare il picco di ammalati, concentrato in un tempo molto breve.
Rispetto a quanto accadeva a marzo aprile, si registra negli ultimi due mesi una importante differenza, figlia della minor severità, allo stato, del contagio rispetto alla prima ondata: ad essere sotto stress non sono i presidi di terapia intensiva, ancora lontani dal drammatico grado di saturazione della primavera, bensì quelli preposti alla prima accoglienza e smistamento dei malati, unitamente a quelli dedicati al ricovero e all’assistenza dei pazienti con forme non gravi di malattia. In altre parole sta attualmente verificandosi un’ondata di paucisintomatici, mentre a marzo/aprile l’ondata era composta di malati gravi. A tal riguardo, vedi l’illuminante inchiesta di Manuel Montero pubblicata su questo Magazine.
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Questa volta tuttavia, a prescindere dalle deficienze e rigidità organizzative che ostacolano tale operazione, un fattore impedisce di coinvolgere e mobilitare i medici di famiglia nella lotta alla malattia ai suoi primi stadi. Le terapie farmacologiche menzionate in primavera dal dr. Martinetti a beneficio dei medici di famiglia perché le utilizzassero nell’assistenza domiciliare, non hanno superato le verifiche scientifiche condotte per verificarne la praticabilità, leggi a tal proposito qui, e quindi non sono più somministrabili. Alcune di esse sono riservate alla cura dei malati più gravi, ovviamente ospedalizzati, oppure a specifiche iniziative di sperimentazione clinica.
Un breve accenno ai farmaci anticovid più conosciuti: l’idrossiclorochina e il plasma iperimmune. Ad oggi l’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, sconsiglia l’uso della prima, giudicata inefficace e addirittura dannosa, mentre il secondo ha prodotto benefici solo in stadi medio gravi della malattia.
Con riferimento alla “idrossiclorochina”, nella recente polemica tra i professori Roberto Burioni, immunologo, e Luigi Cavanna, oncologo, vedi ad esempio qui, sull’uso dei questa sostanza, entrambi, a loro modo, hanno ragione: il primo nel rimarcare che l’organismo competente, appunto l’AIFA, non ha dato l’ok all’utilizzo della idrossiclorochina, il secondo nel sostenere che, con riferimento alla sperimentazione clinica che sta conducendo, e della quale si appresta a pubblicare i risultati, emergerebbe la sua utilità soprattutto nella cura delle forme lievi e precoci.
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Tornando all’ondata di “paucisintomatici” che si sta attualmente verificando, ci piace evidenziare, a riprova che le indicazioni del dr. Martinetti mantengono la loro validità, come, in questi giorni, in numerose realtà sanitarie italiane, ad esempio a Milano e a Bergamo, si è deciso di rimediarvi con i cosiddetti “Hotel covid”.
Si tratta di strutture alberghiere, inutilizzate per la crisi del turismo indotta dalla pandemia, che le Aziende Sanitarie locali acquisiscono e riadattano per assistere pazienti contagiati in forma lieve dal coronavirus. A ben vedere, altri non è che la via italiana alla soluzione cinese al problema dei paucisintomatici da covid 19…
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