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Coronavirus, a Bergamo muore un ammalato su cinque. E nessuno sa perché

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A Bergamo un malato di coronavirus su cinque muore. E sono solo le stime ufficiali. Le morti di Bergamo sono quasi un terzo di tutta la Lombardia. Ma accade solo qui. Perché c’è così tanta differenza con le altre province della regione?

 

Di Edoardo Montolli

La Regione Lombardia, nella quotidiana diretta via Facebook in cui fornisce i bollettini dei contagi da coronavirus, non spiega mai quanti siano i morti per provincia. Non dice, in sostanza, dove, nella Lombardia, si muore di più. È una scelta che non ha molto senso nel momento in cui i decessi si contano a migliaia e dove ogni dato possibile deve essere comunicato alla popolazione.

Tuttavia, due recenti articoli ci aiutano a capire di più su come e quanto si muoia a Bergamo, che non è più la provincia più colpita: al 30 marzo contava 8664 contagi, dietro Milano, che ne aveva 8674 e davanti a Brescia con 8212. Nemmeno Bergamo città è la più colpita: con 1088 contagi era la terza dietro Milano, con oltre 3500 e Brescia con 1249 contagi.
Ma, come stiamo per vedere, questi dati stridono quando si parla di mortalità.

I DUE ARTICOLI

Il 26 marzo il quotidiano La Stampa pubblicava una lettera dell’ambasciatore russo Sergey Razov. Il diplomatico intendeva rispondere a due articoli allusivi sui presunti reali motivi dell’invio dei medici da Mosca a Bergamo. La querelle non c’interessa affatto.
Importa però ciò che Razov sottolineava nella missiva riguardo la provincia orobica: «Com’è noto si tratta di una delle città del nord Italia con il maggior numero di infettati, dove sono già morte 1267 persone e 7072 restano positive».
Evidentemente Razov si riferiva al giorno in cui ha preso carta e penna, ossia ai dati del 25 marzo. Ma al 25 marzo nella provincia di Bergamo non vi erano 7072 persone che “restavano positive” più 1267 morti. I decessi erano compresi nei 7072 contagi.
Una differenza cruciale.

Fatti due conti, significa che al 25 marzo i morti nella provincia di Bergamo costituivano il 17,9% dei contagiati. Una percentuale che lascia senza fiato. Soprattutto se si considera che, estrapolando i dati della provincia orobica, la mortalità nella Lombardia sarebbe per quel giorno risultata molto più bassa: non del 13,8%, ma del 12,6. Un punto e rotti percentuali in meno, che nel caso significano decine e decine di morti in meno, a stare bassi.
Vuol dire che era proprio Bergamo a tenere il dato della mortalità alto. Purtroppo, questo scenario sinistro è il meno.

Passano infatti quattro giorni e scopriamo che questi numeri sono aumentati ancora. E in maniera vertiginosa.
Il Corriere della Sera pubblica i infatti dati del 29 marzo: a Bergamo, in totale ci sono 1878 morti.
L’autorevolezza della fonte dei due articoli non è da mettere in discussione. I dati sui contagi sono ufficiali, perché li fornisce la Regione Lombardia stessa.

UNO SU CINQUE MUORE

Così, dal raffronto, scopriamo che a Bergamo, in quattro giorni, ci sono dunque stati altri 611 morti. E se guardiamo a questo punto i dati dei contagi della Lombardia al 29 marzo, ecco cosa si ricava:

  1. A Bergamo i morti non sono più nemmeno il 17,9% dei contagiati, ma il 22%: significa che in questa provincia più di un ammalato su cinque muore.
  2. I contagi di Bergamo costituiscono il 20% della Lombardia, ma i morti di Bergamo sono inspiegabilmente il 29,5% di tutta la regione, praticamente un terzo.
  3.  Scorporando i dati di Bergamo, la Lombardia avrebbe una mortalità molto più bassa del 15,5% che si ricava al 29 marzo, l’avrebbe addirittura del 13,7%.

Perché allora solo a Bergamo si muore così tanto? Non è che il coronavirus sia diverso da una provincia all’altra. E neppure che a Bergamo ci fosse un picco di contagi enormemente diverso dalle altre aree lombarde. Nella provincia di Milano, il 29 marzo, c’erano appena 198 ammalati in meno e a Brescia 512 in meno. Anche il carico di malati sulla densità di popolazione non vedeva primeggiare la provincia orobica: a Cremona risultava 1 contagiato ogni 95 abitanti, a Lodi 1 su 111, a Bergamo 1 su 130.
E allora a cosa si deve questa discrasia sul rapporto contagi – morti di Bergamo?
A cosa è dovuta questa disomogeneità dei decessi con il resto della Lombardia?

I FATTI

Abbiamo riportato i racconti di chi sosteneva che a Bergamo le ambulanze, nei giorni peggiori, arrivassero anche dopo sette ore. E la testimonianza di un medico dell’ospedale Papa Giovanni che asseriva di dover ormai scegliere chi salvare. Così come quella di uno pneumologo del medesimo nosocomio, costretto a cercarsi da solo gli impianti per l’ossigeno in un’azienda di Levate il 7 marzo, a venti giorni dall’emergenza. E ancora le affermazioni decisamente tardive del sindaco di Bergamo Giorgio Gori secondo il quale i morti sarebbero molti di più, tanti spirati nei loro letti di casa. (QUI LE LORO STORIE).

Sappiamo anche che al 29 marzo in terapia intensiva in Lombardia c’erano l’11,4% dei ricoverati, una percentuale sensibilmente più bassa rispetto alla media delle altre regioni italiane. Vuol dire che il problema vero in Lombardia ed evidentemente soprattutto a Bergamo, era ed è che troppa gente muore prima di arrivarci, all’intensiva. Oggi ci viene detto pure da un anestesista che tra chi si aggrava a casa ne muoiono 9 su 10 e che non esiste un protocollo collaudato per la terapia domiciliare: troppo spesso viene prescritto loro solo paracetamolo, la Tachipirina per intendersi. (QUI TROVATE L’INTERVISTA)

E allora cos’è successo a Bergamo?
E, fuori dai già mostruosi numeri ufficiali, quant’altra gente in più è morta in casa, senza mai ricevere nemmeno il tampone nella regione che si vanta di essere il fiore all’occhiello della sanità italiana?
Perchè all’Agi  hanno parlato i sindaci di altre località della provincia falcidiate, devastate nel silenzio, senza nemmeno essere citate dai lugubri bollettini quotidiani della Protezione Civile.
Ci sono paesi decimati senza un perché: ad Albino, al 29 marzo, 145 morti contro i 24 dell’anno scorso. Ma certificati da coronavirus solo 30.
San Pellegrino Terme: 45 morti, di cui solo 11 ufficialmente per coronavirus. Nel 2019 i decessi erano stati 2.
Scanzorosciate: 135 morti, 90 in più dell’anno scorso, dei quali non più di 20 ufficiali per coronavirus.
Com’è morta tutta questa gente spirata in casa?
Cos’è successo quando chiamavano il numero verde delle emergenze, il 1500 o il 112 chiedendo istruzioni o quantomeno un tampone?
Perché è difficile credere che siano morte tutte di altre ragioni, così come è arduo ipotizzare che siano decedute in due ore dal primo colpo di tosse, no?
E allora, qualcuno ce lo dovrà dire cos’è successo realmente a Bergamo dalla metà di febbraio ad oggi. E perché questo sia accaduto esclusivamente lì.
Davvero, per tutte queste morti, si può dare esclusivamente la colpa al virus?
Davvero dobbiamo tacere delle concause evidenti?
Davvero nessuno è responsabile dell’abbandono di un’intera provincia da oltre un milione di abitanti?
Davvero la gente di queste parti si deve accontentare di essere stata vittima di un destino atroce e dello sfortunato rimpallo di responsabilità tra Lombardia e Governo su chi dovesse cinturare i focolai di Alzano e Nembro, cosa peraltro mai avvenuta?
Davvero l’arbitraria sospensione del diritto costituzionale alla salute avvenuta di fatto in terra orobica la dobbiamo solo ad un morbo?

UN SILENZIO ASSORDANTE

Perché purtroppo l’aria che si respira in questi giorni è quella di una dignitosa e composta rassegnazione da una parte e di un convinto mutismo dall’altra, tutti presi a comunicare centinaia di morti al giorno ormai come un fastidioso effetto collaterale, pronti a riaprire felici per il crollo dei contagi.

Così, non vogliono polemiche gli espertoni che bollavano l’epidemia come una «forte influenza» (e che sono ancora in tv e sui giornali a propinarci sermoni senza vergogna) quando chiunque si fosse letto i rapporti cinesi su Wuhan sapeva che le cose non stavano affatto così.

Non vuole polemiche il premier Giuseppe Conte, perché è facile criticare «con il senno di poi» e, citando Manzoni, afferma che «del senno del poi son piene le fosse».
Anche se, a dire il vero, le fosse sono piene solo di cadaveri: su questo sito denunciavamo l’assenza completa di un’organizzazione e l’assenza delle mascherine obbligatorie negli ospedali il 22 febbraio, il giorno dopo il primo caso di Codogno, non a marzo inoltrato, non con il senno del poi.

Il 26 febbraio pubblicavamo integralmente la lettera agghiacciante di due medici della zona rossa che denunciavano l’abbandono sanitario in cui versava tutta l’area. Il 26 febbraio, non con il senno del poi.

Ed è pieno così di persone che testimoniavano il caos in diretta a Bergamo. Sara Agostinelli, bergamasca, su Facebook il 14 marzo: «Qui ci auto-curiamo, da soli, quando va bene riusciamo ad avere qualche indicazione telefonica, perché anche i medici di famiglia non ce la fanno a seguirci tutti. Le sirene non si fermano mai fuori dalla finestra, notte e giorno, e se chiami il 112 non riescono a risponderti prima di chissà quanto tempo. E ti portano in ospedale quando ormai sei grave. Perché non c’è posto. Perché non ce la fanno a curarci».

Il 17 marzo, l’Ordine professioni infermieristiche di Bergamo: «A Bergamo si segnalano ogni giorno circa il 24-25% dei nuovi casi positivi di COVID-19 e si registra il 27% di tutti i decessi della Lombardia che si possono quantificare in una media di circa 50 al giorno».

Il 22 marzo lo stesso Ordine denuncia in un comunicato inviato a Regioni e Governo lo «spaventoso» e «oltremodo disaramante ritardo» nella consegna dei dispositivi di protezione: «In Lombardia la soglia del tollerabile è stata ampiamente superata».

E dato che gli studi cinesi che lo stesso Istituto Superiore di Sanità citava esclusivamente per i suoi raffronti per l’identikit delle vittime erano del 24 febbraio, stiamo parlando del “senno di prima”, di molto prima che venissero prese delle misure dall’esecutivo. Altro che citare Manzoni.
E se li conoscevamo noi, questi studi, figuriamoci loro.
Figuriamoci gli espertoni.
Figuriamoci il Palazzo.
Ma alla stessa data i politici di ogni schieramento giocavano a coniare slogan e invitavano a riaprire le attività in fretta mentre la loro gente moriva ad ogni minuto. Nemmeno loro vogliono polemiche.

Non vuole polemiche il Governo, che era «pronto da mesi all’emergenza» e poi ha serenamente umiliato i medici e gli infermieri in trincea in Lombardia inviando mascherine di “carta igienica”.

Non vuole polemiche la Regione che si vanta di aver raddoppiato le terapie intensive, anche se i lombardi e soprattutto i bergamaschi muoiono per la gran parte prima di entrarci.

Non vogliono le polemiche esecutivo e Lombardia dopo che un nuovo ospedale da campo è stato fatto in sei giorni in Fiera a Bergamo. Anche se a realizzarlo, gratis, sono stati gli alpini e 250 artigiani volontari locali.

Non vogliono polemiche tutti costoro proprio ora che gli accessi ai pronto soccorso sono diminuiti, anche se a Bergamo è morto più di un quinto dei malati ufficiali e un numero indefinito di persone al pronto soccorso non ci è mai arrivato perché è deceduto prima, senza alcuna assistenza né certificazione della malattia.

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E per lunga esperienza professionale so che tutti costoro non le vorranno nemmeno domani, le polemiche, dando dello sciacallo a chi alzerà la voce. Perché la politica e gli pseudointellettuali da salotto, analfabeti della vita reale e della sofferenza, si riempiono sempre la bocca di citazioni dotte e parole vuote, alla bisogna.
Ma qui, si rasserenino pure, nessuno vuole polemiche.
Qui si pretende giustizia.

Edoardo Montolli

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Edoardo Montolli

Edoardo Montolli, giornalista, è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi (Aliberti, 2009), tuttora spesso al centro delle cronache, ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi vent'anni. Dal 1991 ha lavorato con decine di testate giornalistiche. Alla fine degli anni ’90 si occupa di realtà borderline per il mensile Maxim, di cui diviene inviato fino a quando Andrea Monti lo chiama come consulente per la cronaca nera a News Settimanale. Dalla fine del 2006 alla primavera 2012 dirige la collana di libri inchiesta Yahoopolis dell’editore Aliberti, portandolo alla ribalta nazionale con diversi titoli che scalano le classifiche, da I misteri dell’agenda rossa, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti a Michael Jackson- troppo per una vita sola di Paolo Giovanazzi, o che vincono prestigiosi premi, come il Rosario Livatino per O mia bella madu’ndrina di Felice Manti e Antonino Monteleone. Ha pubblicato tre thriller, considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia (Hobby & Work 2005/ Giallo Mondadori 2008), La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007) e L’illusionista (Aliberti, 2010). Il suo ultimo libro è I diari di Falcone (Chiarelettere, 2018)

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