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Statistiche e sporche bugie

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Un detto variamente attribuito a Balfour, Bagehot o Disraeli dice che le bugie si dividono in bugie innocenti, sporche bugie e statistiche. In questa epoca geopolitica bisognerebbe aggiungere anche i comunicati congiunti che seguono ogni incontro fra capi di Stato. Ma nelle righe che seguono, l’argomento sono le statistiche e il loro uso da parte dei media e dei politici.

Sgomberiamo il campo dal solito noiosissimo e overcitato pollo di Trilussa: quando si parla di statistica, è solo la punta dell’iceberg, anche se viene purtroppo sventolato anche di fronte alle applicazioni statistiche più interessanti – e lontane dalla semplice “conta dei fagioli” della quale, secondo diverse persone ignoranti o superficiali, consistono la statistiche. La scienza statistica è utile e lo sono anche le statistiche, però il modo come vengono interpretate può essere assolutamente fuorviante. L’esempio più ovvio sono le statistiche sul Prodotto Interno Lordo. Che misura la produzione, non la felicità della popolazione. Spesso una maggiore produzione è necessaria per accrescere la felicità, ma non è detto che lo sia sempre e neppure che non avvenga mai che invece la diminuisca. Eppure nel dibattito politico la distinzione non viene praticamente mai fatta.

Di fronte ad una statistica è fondamentale rendersi ben conto di che cosa esattamente essa misuri. E prima di tutto, degli effetti del metodo con cui vengono raccolti i dati. Senza questa cautela, la statistica può non valere un bel niente. Per esempio, se si misura il reddito delle famiglie sulla base delle dichiarazioni fiscali, il risultato non tiene conto dell’evasione e dunque a colpo sicuro sottostima il reddito. Quando si misura il costo medio annuo dei lavoratori per le imprese, non si sa ancora nulla del livello degli stipendi: il costo può crescere mentre la busta paga dimagrisce, perché aumenta il prelievo fiscale e contributivo.

Il rischio di interpretare male i numeri è tanto più alto quanto meno siamo consci del contesto economico e sociale.

Il caso più celebre è una statistica fatta dai medievalisti. Per tutto il Medioevo, i dati che ci sono pervenuti mostrano che in media celibi e nubili vivevano meno degli sposati, e il clero viveva più a lungo di tutti. Alcuni ne hanno dedotto che il matrimonio è una cosa positiva e che i preti sfruttavano tutti gli altri. Senza pronunciare giudizi, si può comunque notare che a quei tempi la mortalità infantile era altissima. Chi moriva in fasce era sempre celibe e tirava giù la media della durata della vita dei celibi. Per sposarsi uno doveva avere almeno sedici anni, e quanto al clero, per ricevere gli ordini bisognava averne almeno ventiquattro. Il seminarista che moriva prima veniva contato in una delle altre due categorie.

Due altri esempi, e poi, lo prometto, vi lascerò al vostro destino e tornerò alla mia tisana biologica. Non esiste cecità al contesto maggiore di quella che riguarda le statistiche che si riferiscono a società molto diverse dalla nostra, per esempio quella della fu Unione Sovietica.

Se si prende in esame il periodo dei primi due piani quinquennali (in sostanza, gli anni Trenta del secolo scorso) si può vedere che per tutto l’arco dei due piani il salario medio dei lavoratori dell’industria scende. Eppure non viene alla luce alcun malcontento generale. La gente assorbe questa diminuzione senza reagire. Solo i tribunali assestano condanne terribili a pretesi oppositori politici che in realtà non hanno fatto niente, essenzialmente perché bisogna colonizzare la Siberia e l’estremo Nord e nessuna persona sana di mente e libera di rifiutare ci si farebbe inviare.

L’interpretazione di questo dato da parte di coloro che non hanno simpatia per Stalin è spesso fuorviante. Non perché bisogni simpatizzare per Stalin (tutt’altro!), ma perché l’ignoranza del contesto falsa la percezione del fenomeno. Le interpretazioni seguono due linee: o si mettono in dubbio le statistiche, liquidandole come pura propaganda, oppure si pensa che il malcontento sia stato efficacemente represso dalla dittatura politica. In realtà, invece, il malcontento di origine economica non c’era, come si può rendere conto chiunque esamini criticamente il contesto.

Il quale contesto è questo. I due piani quinquennali segnano la fine della Nuova Politica Economica dei bolscevichi, relativamente liberale, e l’inizio dell’industrializzazione massiccia dell’Unione Sovietica. All’inizio del periodo, la maggior parte della popolazione risiede nelle campagna e lavora come manodopera nei kolchozy, le aziende agricole collettive formalmente gestite come cooperative. Pertanto, i loro redditi non sono considerati salari. Nel corso del decennio coperto dai due piani, una quota cospicua di questa popolazione agricola si trasferisce nelle città e passa a un lavoro operaio nell’industria o nelle costruzioni. Il regime fa poi un grandissimo sforzo per riqualificare la forza lavoro: se i contadini diventano manovali, gli operai acquisiscono una specializzazione tecnica e i tecnici, spesso, diventano manager.

Il salario medio scende, e anche in misura abbastanza notevole. Ma a percepire i minori salari non sono le stesse persone di prima. Il manovale che riceve un salario più basso di quello dei manovali di dieci anni prima è un ex contadino che ha migliorato la sua posizione; il tecnico riceve un salario maggiore di quello che percepiva prima come operaio; e il manager è pagato meglio di quando era tecnico. In altre parole: nonostante il ribasso del salario medio, quasi tutti hanno migliorato la propria situazione economica. I grandi Stati totalitari del secolo XX, con l’eccezione dell’Italia, sul piano economico hanno un indubbio successo. Tanto la Germania quanto l’Unione Sovietica costruiscono in pochi anni un complesso industriale di prim’ordine, riassorbono la disoccupazione e migliorano il tenore di vita della maggior parte della gente (gli ebrei e i lavoratori forzati dei campi siberiani sono le ovvie eccezioni).

Nell’Unione Sovietica di molti decenni dopo si può rilevare un altro fenomeno statistico sorprendente – e di segno opposto al precedente: il salario reale medio cresce. Il salario reale, per chi non ha familiarità con la scienza dell’economia, è il salario in moneta corrente diviso per l’indice dei prezzi. Esso esprime la quantità di beni e servizi che può essere comperata con i soldi che vengono pagati ai lavoratori in periodi diversi. Dalla statistica sul salario reale medio in Urss si dovrebbe quindi dedurre o che i lavoratori stavano migliorando la propria posizione, anche se non se ne rendevano conto e visibilmente nel complesso erano abbastanza insoddisfatti, oppure che le cifre erano truccate e non corrispondevano alla realtà.

Né l’uno né l’altro. In un’economia di mercato, l’esistenza di un potere d’acquisto comporta (se lasciamo da parte il risparmio) che qualcuno produce i beni e i servizi desiderati, li offre sul mercato, e li vende a chi ha i soldi per pagarli. Si chiama domanda effettiva ed è un concetto importante e significativo. Le remunerazioni reali esprimono davvero il benessere materiale della popolazione (e sottolineo: materiale; altre forme di benessere non sono misurate dalle remunerazioni reali).

Ma nei Paesi comunisti non era così. In quei Paesi, il fatto che la popolazione disponga di un potere d’acquisto non significa che lo Stato onniproprietario metterà davvero a disposizione i beni e i servizi richiesti. Tu puoi avere il tuo bel fascio di banconote e magari portartelo sempre in tasca perché non si sa mai, ma nei negozi gli scaffali sono vuoti, i beni sono deficitnye (scarsi) e più che i soldi te li procurano i rapporti personali e le lunghe code davanti ai negozi. Il salario reale aumenta e l’insoddisfazione anche… e magari perfino di più, perché non riesci a trovare quello che vuoi e che pure ti potresti permettere, se lo trovassi. Non è che i numeri siano falsificati (non necessariamente, almeno), è che non significano quello che la gente pensa.

Conclusione: il modo come viene pensata la raccolta dei dati e la logica di una statistica spesso prefigurano già i risultati. Attenzione dunque quando qualcuno cita dati statistici a sostegno delle sue tesi: i numeri da soli non dicono nulla, anche quando non contengono distorsioni deliberate possono benissimo rappresentare una deformazione della realtà. Le statistiche non di rado sono ancora più menzognere e pericolose delle sporche bugie.

Paolo Brera

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Paolo Brera

Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, eocnomia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Algama sta ripubblicando le sue opere in ebook, a partire dalla serie dei romanzi con protagonista il colonnello De Valera.

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