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Immigrazione, schiaffo alla May

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L’immigrazione apporta vantaggi e svantaggi, sia sul piano economico che su altri piani. Il problema è soppesarli e decidere nelle condizioni concrete. Come ha fatto a Londra la Camera dei Lord nel discutere la legge sulla Brexit

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A Londra, la Camera dei Lord ha dato uno schiaffo al governo di Theresa May, votando un emendamento al Brexit Bill perché gli immigrati dai Paesi dell’Ue ricevano dal governo garanzie sulla loro possibilità di rimanere nel Paese. Se la Camera dei Comuni dovesse confermare, Londra non potrebbe più premere sull’Unione perché i britannici che vi risiedono ricevano a loro volta garanzie. Mentre gli europei in Gran Bretagna sono sopra tutto lavoratori, i britannici sul Continente contano fra loro un buon numero di pensionati, il cui ritorno in patria creerebbe grossi problemi al Servizio sanitario e al settore immobiliare.

Nelle future trattative per la Brexit, l’argomento residenti nelle due aree sarebbe meglio risolto con garanzie unilaterali da ambo le parti, perché le persone non sono fiches da giocare su un tavolo di trattativa. L’incertezza imposta dal voto britannico ha già nettamente rallentato l’immigrazione, e in più ha generato flussi di ritorno, perché i lavoratori cercano stabilità e oggi questa non è più garantita, perché la discussione euro-britannica può andare a finire in qualunque modo.

Quello dell’immigrazione non è solo un tema economico. L’integrazione di un gran numero di persone provenienti da culture diverse può dare grossi guai sociali e politici. Ma non c’è dubbio che esista anche un aspetto economico.

Sul piano culturale, l’immigrazione apporta idee nuove e spinge la società ospite a evolvere. È un vantaggio, ma per altri versi c’è anche uno svantaggio, una diminuzione dell’identità. In una metropoli come Milano, per esempio, si è quasi perso l’uso della lingua locale – il lombardo occidentale, che alcuni chiamano dialetto milanese.

Chi sposa un immigrato e si converte all’Islam può anche non sentire come una perdita l’arretramento della religione tradizionale (cristiana) in un Paese europeo, ma altri possono certo pensarla diversamente, siano o meno inclini a prendere aperte contromisure. Il burkini o altri abiti ancora meno comodi hanno già portato contrapposizioni acute in pubblico.

http://www.algama.it/2017/01/31/sul-sito-di-gq-in-esclusiva-un-racconto-di-paolo-brera/

Sia la cultura ospite che quelle ospitate devono venire a qualche forma di accomodamento, ma dovrebbe essere ovvio che la maggior parte della strada la dovranno fare le culture immigranti. I problemi dati dai possibili conflitti delle culture aumentano all’aumentare dei numeri dell’immigrazione, il che suggerisce che bisognerebbe esercitare qualche restrizione.

Nel caso degli scambi di popolazione fra Paesi europei le differenze culturali non sono molto pronunciate, ed è molto ragionevole non frapporre troppi ostacoli ai trasferimenti. In Gran Bretagna, le discussioni sull’immigrazione hanno quasi sempre mancato di fare una distinzione fra i migranti europei e gli altri. Dopo aver insistito nel 2006 per avere da subito la libera circolazione dei lavoratori provenienti dall’Europa orientale, i britannici hanno fatto un voltafaccia e adesso vogliono un controllo unilaterale.

Contrariamente a come viene presentata la questione da quasi tutti, cioè in bianco e nero, solo vantaggi o solo svantaggi, l’immigrazione ne presenta degli uni e degli altri. Il punto è capire quali predominano in un dato momento e con i numeri reali dell’immigrazione.

Cominciamo dai vantaggi (da qui in poi considero soltanto quelli economici). Quando un migrante arriva in un Paese per stabilircisi, rappresenta un certo investimento in capitale umano il cui costo è stato sostenuto dal Paese di origine, ma i cui benefici si esplicheranno sopra tutto nel Paese di arrivo. Monetizziamo, con cifre orrbilmente approssimate che però illustrano la logica di questo ragionamento. Per portare un individuo fino all’età produttiva e istruirlo, a seconda del Paese, ci possono volere da 50.000 a 200.000 euro. Se questo lavorerà i successivi quarant’anni nel Paese ospite, produrrà per (diciamo) 1.200.000 euro e nell’arco dell’intera sua vita consumerà, forse, per 900.000. Beneficio per il Paese ospite, 300.000 euro.

Però il lavoro da solo non crea valore: se da un chilometro quadro di territorio escono ciliegie e occhiali da sole, vuol dire che dentro quel chilometro non ci sono solo donne nude e natura selvaggia: ci sono campi e macchine ed esseri umani in tuta da operaio che ci lavorano sopra. Senza tutto questo, di lì non esce praticamente nulla che si possa consumare.

La valutazione dei soli effetti positivi dell’immigrazione presuppone poi che il lavoro dell’immigrato non sostituisca lavoro locale, e non tiene conto dell’investimento necessario per far lavorare l’immigrato. Se un indigeno viene privato del posto di lavoro che va all’immigrato, dalla produzione di quest’ultimo bisognerà detrarre quella che altrimenti avrebbe assicurato il neo-disoccupato, più le risorse necessarie per mantenerlo in vita.

In più, se per rendere produttivo il nuovo venuto occorre un investimento (attrezzature produttive, residenziali, ecc.), anche questo va detratto dal contributo dell’immigrato. L’ultima volta che ho letto una stima dell’investimento necessario in media per un posto di lavoro, era 25.000 euro. Se non ce li mette l’immigrato, dobbiamo metterceli noi. E non ne abbiamo in quantità infinita. Chi non vuole tenere conto di questo è ignorante oppure in malafede.

 

http://www.algama.it/2016/12/17/i-piu-grandi-autori-di-sempre-tradotti-da-paolo-brera/?cbg_tz=-60

 

L’immigrazione esercita sicuramente anche una pressione sui salari e sulle condizioni di vita e di lavoro della popolazione locale (ancora una volta, chi lo nega o è disinformato o vuole disinformare). Dei salari più bassi beneficiano gli imprenditori e molto indirettamente parte dei disoccupati, mentre i lavoratori ne scapitano. I servizi generali (salute, pensione, urbanistica…) vengono ripartiti fra un numero maggiore di persone. Si creano problemi di convivenza di cui risentono i poveri più dei ricchi. Possono essere piccoli o grossi, ma ci sono.

In termini chiari: ogni immigrato è anche un commensale in più alla tavola comune. Assorbe una parte del prodotto, usa le risorse comuni come la natura, occupa parte del patrimonio edilizio e assorbe servizi generali tipo la sanità. Non si può dare per scontato che il suo contributo lavorativo necessariamente compensi tutto questo.

Il problema come ho detto non è solo economico, ma sul piano economico si enuncia così: è giusto, qui ed ora, impiegare le risorse per ospitare una persona in più anziché per far star meglio chi già si trova qui? E come si dovrà ripartire quello che gli economisti chiamano opportunity cost, visto che ciò che spendiamo in un modo non lo possiamo spendere in un altro? Oggi alcuni guadagnano dall’immigrazione, altri ne sono colpiti nel proprio tenore di vita.

Esiste indubbiamente un aspetto etico, è giusto amare il nostro prossimo e venirgli in aiuto se si trova nel bisogno. Il problema è, come spesso accade, la misura. San Martino diede metà del suo mantello a un povero che non aveva di che coprirsi.. Encomiabile, ma nella nostra società chi prende le decisioni raramente spartisce il suo proprio mantello: se lo tiene ben stretto e divide quello degli altri – per non dire che magari ci lucra sopra qualche tangente. Sul piano etico, non è precisamente la stessa cosa.

In un Paese dove il capitale produttivo installato è sottoutilizzato, l’investimento aggiuntivo necessario per mettere al lavoro l’immigrato è nullo o quasi. Resta però quello residenziale, quello sanitario, ecc. Se il capitale produttivo è prossimo al pieno utilizzo, non ha molto senso ricorrere all’immigrazione. Meglio investire nel Paese di origine degli immigrati per accrescere il capitale produttivo in loco ed evitare i problemi di integrazione e quelli legati, nel Paese ospite, alla maggiore necessità di infrastrutture per i bisogni degli immigrati e delle loro famiglie.

Non sono molti i Paesi in cui il capitale è abbondante e il lavoro relativamente scarso. Un’occhiata ai tassi di disoccupazione e ai numeri della popolazione attiva dei vari Paesi europei ci può dare indicazioni interessanti. In Germania, dove il tasso di attività è alto e la disoccupazione bassa, di immigranti c’è bisogno. Lo stesso in Gran Bretagna.  Già si sentono lamentele nel settore agricolo e si profilano situazioni di estrema difficoltà negli ospedali. Invece di tenerli fuori, i migranti, Londra dovrebbe cercare di integrarli – e con gli immigrati europei, è facile. Theresa May si sta dando la zappa sui piedi, e i Lord non hanno torto a votarle contro su questo tema.

In Italia la popolazione attiva non è una quota molto alta di quella totale, il tasso di disoccupazione è relativamente alto e il capitale non è disponibile in abbondanza. Ne segue che l’immigrazione va disincentivata. Si può discutere dei mezzi (che devono essere umani e per quanto possibile rispettosi), ma il fine, al momento attuale, mi sembra difficile da respingere.

Paolo Brera

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Paolo Brera

Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, eocnomia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Algama sta ripubblicando le sue opere in ebook, a partire dalla serie dei romanzi con protagonista il colonnello De Valera.

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