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Una proposta analgesica per le sofferenze bancarie

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Il sistema bancario italiano ha un grosso problema, le sofferenze. Si tratta di circa 198,4 miliardi di euro al lordo degli accantonamenti a riserva, e 84,0 al netto di questi.

 

È una cifra molto alta, pari a circa il 18% del pil italiano, che in proporzione supera il livello esistente in altri Paesi e incide sulla capacità delle banche di fornire credito all’economia, sul livello di adeguatezza del loro capitale e sulla loro redditività.

In circostanze normali, il mercato attribuisce un prezzo ai crediti deteriorati (detti anche Npl, Non-Performing Loans) e a quel prezzo si trovano quelli che vendono e i compratori disposti a correre il rischio di essere ripagati solo parzialmente dai creditori. È ovvio che non è che sono scemi, la convenienza dipende dal prezzo. Se io compro un bouquet di crediti in sofferenza al 20% del valore nominale, recuperando sull’importo questi crediti una percentuale superiore al 20% farò un utile. In genere, si stima che nel sistema italiano gli Npl vengano recuperati per un 40-50% del loro importo nominale.

Il guaio è che questi non sono tempi normali. L’economia va male da anni, e nessuno (tranne Renzi, almeno nei tweet) è ottimista sulle sue potenzialità di ripresa in tempi brevi. Perciò i crediti in sofferenza ricevono valutazionI troppo basse, le banche non li cedono per non rimetterci dei soldi, il mercato è super-illiquido e la massa degli attivi dubbi imtralcia l’attività economica come una palla al piede.

In altri Paesi (e in altri tempi), quando il sistema bancario si è afflosciato, è intervenuto lo Stato. Così in Irlanda, in Gran Bretagna, in Francia, in Germania. In Spagna c’è stato un intervento a livello europeo. Ma questo era prima del bail-in. Con il bail-in l’intervento dello Stato può esserci solo se una banca in difficoltà ha bruciato prima l’investimento degli azionisti, poi quello degli obbligazionisti, e infine anche una parte di quello dei correntisti per le loro disponibilità in eccedenza ai 100.000 euro.

Per le sue dimensioni, però, in Italia il problema delle sofferenze è sistemico. Non riguarda solo alcune banche e alcune categorie di operatori, riguarda tutti. Per questo Matteo Renzi è andato al vertice europeo a chiedere di rimandare l’introduzione delle nuove norme sul bail-in. In effetti, molti degli altri Paesi hanno messo in sicurezza le loro banche precisamente con un intervento di quelli che ora sono proibiti. Le banche italiane anni fa non erano in difficoltà comparabili, e con l’eccezione del Monte dei Paschi di Siena non hanno ricevuto dallo Stato aiuti di rilievo.

Alla richiesta di Renzi, Angela Merkel ha risposto picche, argomentando che non si possono cambiare le regole ogni due anni. È vero: era l’Italia (il governo Renzi) che non avrebbe dovuto votarle in sede europea, oppure avrebbe dovuto fin dall’inizio negoziare uno scadenzario diverso per l’entrata in vigore. La reazione di Piazza degli Affari a questo stop è stato il crollo dei prezzi delle azioni bancarie. Al momento in cui scrivo è in atto una parizale ripresa dopo alcune (minime) aperture della Commissione europea. Si tratta tuttavia di garanzie pur sempre limitate.

A questo punto il problema è facile da porre. Come si avvia a soluzione il guaio delle sofferenze, senza inciampare nei limiti imposti dalle norme europee?
La risposta potrebbe essere quella che leggerete nelle prossime righe, che fa ricorso a un po’ di ingegneria finanziaria – ma semplice semplice, che ciascuno può capire.

Da dove si deve partire-  La banca più insabbiata nelle sofferenze è il Monte dei Paschi di Siena, che ne ha per 46 miliardi lordi e – in base all’ultima trimestrale – 24 netti. Ciò costituisce un quarto delle sofferenze nette e una quota appena inferiore di quelle lorde di tutto il sistema creditizio italiano. Il punto di partenza più ragionevole per una soluzione del problema delle sofferenze bancarie in Italia è dunque proprio il Monte dei Paschi. (Disclosure: posseggo una modesta quantità di azioni Montepaschi e ne sono cliente e correntista.)
La cosa potrebbe procedere in questo modo.

Il primo passo è lo spinoff di una newco “Monte dei Crediti” con lo scorporo delle sofferenze (o della maggior parte di esse) e di quel tanto di risorse materiali e di personale che serve a gestirle. Le azioni di questa nuova società verrebbero distribuite gratuitamente agli azionisti Montepaschi, in proporzione alle quantità di azioni possedute. I dipendenti trasferiti dovrebbero ricevere garanzie appropriate per l’occupazione, da concordare fra management e sindacati.

Questa mossa non danneggia gli azionisti, perché le sofferenze, valgano quel che valgano, restano di loro proprietà – solo che dalla scissione in poi appartengono a loro non più attraverso il Monte dei Paschi ma attraverso la newco.

Il futuro Monte dei Crediti, come scissione di una società quotata, nasce direttamente quotato in Borsa. Ci sono già diversi esempi di questa modalità di quotazione per scissione.
Montepaschi non avrebbe nessuna partecipazione nella newco, che quindi uscirebbe dal perimetro di consolidamento (almeno all’inizio, se i senesi non si mettono a comprarne le azioni fino a conseguirne la maggioranza). Senza sofferenze il Monte dei Paschi offrirebbe agli investitori un aspetto molto più invitante, e in assenza di eventi negativi a livello macroeconomico, ci possiamo aspettare che ciò si traduca in prezzi più alti per l’azione. Se fosse necessaria una ricapitalizzazione del Montepaschi, a questo punto risulterebbe più facile.

Il fatto che Montecrediti sarebbe a sua volta quotata in Borsa avrebbe due conseguenze. Primo, che la newco sarebbe contendibile, cioè che potrebbe essere oggetto di una scalata da parte di un soggetto esterno – cosa che mostrerebbe chiaramente che le sofferenze bancarie italiane non sono valutate al loro realistico valore di realizzo. Secondo, che può raccogliere mezzi sul mercato tramite un aumento di capitale o l’emissione di obbligazioni.

La contendibilità, coeteris paribus, sostiene i corsi azionari- Lo Stato avrebbe in Montecrediti la medesima quota che in Montepaschi, cioè il 7%, e potrebbe partecipare pro quota all’aumento di capitale (non criticabile a Bruxelles, perché si limiterebbe a mantenere percentualmente inalterata la quota pubblica); inoltre, dopo l’accordo degli scorsi giorni con la Commissione, potrebbe forse intervenire per garantire le obbligazioni emesse da Montecrediti. Dato poi che Montecrediti sarebbe una società per il recupero crediti e non una banca, per eventuali aiuti di Stato (se necessari per motivi sistemici) non varrebbero le regole del bail-in, che si applicano solamente alle banche.

L’importanza di questo punto non deve essere sottovalutata!- L’aumento di capitale Montecrediti o l’emissione del prestito potrebbero costituire il momento per coinvolgere altri enti, come fondi (incluso il Fondo Atlante), banche, o la Cassa depositi e prestiti.
Con il capitale raccolto, Montecrediti potrebbe specializzarsi nell’acquisizione e nel recupero dei crediti in sofferenza. E in tal modo, date le sue dimensioni (molto superiori a quelle di Atlante), potrebbe fungere da volano per una normalizzazione del mercato degli Npl a livello nazionale, con la ripresa dei prezzi e una maggiore liquidità.

Come dicono i testi di marketing, ogni volta che ci sembra di avere una buona idea bisogna domandarsi perché qualcuno non l’ha già avuta o messa in atto.
In questo caso, oltre all’inerzia di un sistema bancario che per anni non ha dato prova di grande inventiva, c’è un aspetto di potere che deve essere superato. La scissione descritta sopra infatti separa definitivamente i crediti in sofferenza dall’àmbito decisionale del top management di Montepaschi, e quindi ne riduce il potere. Come ha insegnato l’economista cèco Ota Šik, ogni burocrazia tende necessariamente ad ampliare il proprio potere e sé stessa, se non ne viene impedita o dal mercato o da un sistema politico democratico. Sono questi due sistemi frenanti che spingono il management a ricercare l’efficienza. Rileviamo un’ovvietà: entrambi, in Italia, funzionano maluccio.

Paolo Brera
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Paolo Brera

Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, eocnomia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Algama sta ripubblicando le sue opere in ebook, a partire dalla serie dei romanzi con protagonista il colonnello De Valera.

Un commento

  1. E’ il primo articolo che lascio su Frontedelblog e spero di essere perdonato per un “errata corrige”: la percentuale dello Stato nel capitale Montepaschiè il 4%, non il 7%. Anche i migliori sbagliano, figurarsi quelli come me.

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