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Bruno Vespa non avrebbe dovuto intervistare Salvo Riina? E perché mai?

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Enzo Biagi intervistò Liggio. C’è chi ha intervistato i peggiori assassini. E perché allora Vespa non può decidere di ascoltare Salvo Riina? Per quale ragione a decidere chi intervista chi deve essere la Commissione Antimafia?

 

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Hanno tutti la verità in tasca. Tutti che vogliono arrogarsi il diritto di scegliere chi intervista chi. I motivi, a vario titolo: Salvo Riina non può parlare perché è il figlio del Capo dei Capi; Salvo Riina non rinnega il padre, Salvo Riina non dice niente.

Ora, a parte che Riina qualcosa dice. Nel corso della breve intervista a Bruno Vespa, ha un solo – forse apparente – tentennamento. Nel lanciare stoccate ai pentiti – che a differenza degli altri mafiosi diventano rispettabili nonostante abbiano sulle spalle innumerevoli omicidi – nel momento in cui parla di Brusca, afferma che «negli altri Paesi democratici una persona che ha comme…». Poi si corregge: «…dice di aver commesso, attenzione…».

E conclude sostenendo che non si riferisce solo a Brusca.

CAPACI ANNO ZERO

Ecco, bello sarebbe stato incalzarlo sul punto: sul ruolo dei pentiti nelle stragi. Perché al di là di quante centinaia di persone abbiano fatto arrestare quei pentiti, nell’intervista di Vespa si parlava delle stragi di Capaci e via D’Amelio. E su quelle, 24 anni dopo, siamo ancora ai processi.

Eppure Brusca era lì, sulla collina di Capaci.

falconeE se su via D’Amelio ci siamo bevuti un depistaggio farsa per il quale a processo ci sono sempre i derelitti che si autocalunniarono e due rubagalline,  a proposito di Capaci, mi raccontò in un’intervista due anni fa l’avvocato Rosalba Di Gregorio, che di mafiosi – mai pentiti- ne aveva difesi tanti: «Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Eppure Brusca era lì, sulla collina di Capaci.

Quanto all’esplosivo usato, ancora non si sa bene dove stava. Dicevano lo avesse Giovanni Tubato, ma l’hanno ammazzato da un pezzo e non può confermare. Poi pare provenisse da varie parti. Si pensava fosse nella nave Laura C, ma sembra sia da escludere. E così ancora una volta sono stati chiamati dei periti, Marco Vincenti e Claudio Miniero, che hanno svolto il loro lavoro sui documenti, perché si ipotizza che il materiale sia andato deperito (di fatto a gennaio la Corte d’Assise ha respinto una perizia sui reperti), compreso quello che aveva in originale l’Fbi e che è stato ottenuto nel 2014 per rogatoria internazionale. Già, perché, per quanto possa sembrare surreale, per le due più gravi stragi del nostro Paese, parte dei reperti originali erano in un altro Paese sovrano e lo abbiamo avuto ventidue anni dopo per rogatoria.

Magari la Commissione Antimafia potrebbe occuparsi di questo approfondimento, invece che dei giornalisti.

E comunque Brusca era lì, sulla collinetta di Capaci.

Forse poteva dirci qualcosa in più, no?

Ecco, sarebbe stato interessante incalzare Riina Jr su questa sua opinione riguardo Brusca.

Per quanto, all’epoca, il figlio del Capo dei Capi avesse solo quindici anni.

Qui, l’esame dei periti sull’esplosivo di Capaci Marco Vincenti e Claudio Miniero:

 

falcone2I KILLER, I FIGLI DEI BOSS E LE INTERVISTE

Ma siccome tutti hanno la verità in tasca, gli stessi che per vent’anni si sono bevuti le fesserie di un pover’uomo, Vincenzo Scarantino, sulla cui pelle ha campato lo Stato, Salvo Riina, esattamente come suo padre, non deve essere ascoltato. E la cosa bizzarra è che a dirlo sono anche dei giornalisti.

Ma perché mai Vespa non dovrebbe essere libero di intervistarlo?

Chi la deve decidere la persona da intervistare?

Un politico?

Un magistrato?

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E come mai i paletti bisognerebbe usarli solo con Riina Jr?

Le librerie sono piene di libri scritti da assassini.

Di libri fatti con interviste a serial killer.

Ed è pieno così di interviste ai boss. Tralasciando lo spinoso caso di Sean Penn e El Chapo, nel 2000 fece clamore quella in Brasile al nemico pubblico numero uno del narcotraffico, il super ricercato Marcinho Vp ad opera del documentarista Joao Moreira Salles, fratello del regista di Central do Brasil. Joao fu denunciato nientemeno che per complicità. Ma quello era il Brasile, dove la libertà di stampa forse non ha grande importanza.

In compenso, in Colombia, nel 2009 Juan Pablo Escobar, figlio di quello che era stato il più pericoloso narcotrafficante di sempre, parlò del padre, come oggi Salvo Riina Jr.. E dichiarò al domenicale Perfil: «Papà era molto affettuoso, mi ha insegnato a giocare calcio e andare in bicicletta. Mi leggeva le favole e mi cantava le canzoni del Topo Gigio. Quando stavamo a casa, si sedeva con me a guardare la tv e ascoltare musica. Ho viaggiato poco con lui, ricordo solo una visita a Disney. Visto in famiglia, era un uomo che si vestiva e parlava in modo molto semplice, non diceva mai le parolacce, non si arrabbiava né  diventava nervoso».

Somiglia molto al racconto che abbiamo sentito da Vespa. D’altra parte, ci si può aspettare davvero qualcosa di diverso?

Ci si aspettava forse che ripetesse le parole del padre, ossia che «Borsellino lo ammazzarono loro?» senza che mai si sia saputo chi?

No. Anche se forse qualcuno lo ha temuto.

Ma è questo silenzio, il raccontare la Famiglia a quel modo che rende il documento più prezioso.

Naturalmente il parere non è solo mio: è quello che aveva Enzo Biagi.

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“Il mio faccia a faccia con Cosa Nostra”- LEGGI 

 

L’INTERVISTA DI ENZO BIAGI A LIGGIO

A marzo del 1989 Enzo Biagi intervistò infatti a Linea Diretta Luciano Liggio, l’uomo che aveva portato i Corleonesi nel cuore di Cosa Nostra, mettendo in piedi il triumvirato con Badalamenti e Bontate. Uno tutt’altro che pentito. Uno che certo, messaggi in tv ne poteva lanciare di assai pericolosi. Biagi andò a sentirlo a Badu’ e Carros, dov’era detenuto da quindici anni. Alle polemiche che ne seguirono, comprese quelle della vedova del giudice Terranova e del figlio del maresciallo Mancuso, Biagi rispose in tv così: «L’intervista con Luciano Liggio è stata vista da oltre sei milioni di spettatori, i quali possono giudicare. Capisco e condivido le umane reazioni ed il dolore della signora Terranova e del figlio del maresciallo Mancuso, ma credo che non tocchi neppure ai famigliari delle vittime stabilire quello che è giusto o non è giusto fare in televisione. In questo campo il loro parere non vale più di quello di un qualunque altro cittadino. Sarebbe ridicolo che un giornalista discutesse le affermazioni anche aberranti di un uomo già condannato all’ergastolo. I suoi discorsi sono una conferma della psicologia e delle tecniche di Cosa Nostra. Ritengo che l’intervista a Liggio spieghi assai più cose di molti saggi e di molti discorsi. Le coscienze si mobilitano di più con un onesto programma televisivo che con le chiacchiere di certi comizi. In ogni caso giudicate voi».

Il video:

 

Anche Liggio si sentì in dovere di replicare, con una lettera. Ovviamente lo fece a modo suo: «Io sono soltanto un uomo che sta dignitosamente scontando le pur ingiuste pene che mi sono state inflitte».

Bastava sapere chi fosse Liggio e guardare quella trasmissione o leggere questa lettera per capire a fondo la mentalità mafiosa.

E Biagi è sempre stato indicato come maestro di giornalismo, in particolare da chi oggi si indigna per l’intervista a Salvo Riina (peraltro mai condannato per fatti di sangue). E che pretende, con l’imbarazzante seguito di parte della stampa, che forse a decidere chi si debba intervistare sia la Commissione Antimafia.

Manco fossimo ai tempi d’oro della Bulgaria.

Edoardo Montolli

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Edoardo Montolli

Edoardo Montolli, giornalista, è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi (Aliberti, 2009), tuttora spesso al centro delle cronache, ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi vent'anni. Dal 1991 ha lavorato con decine di testate giornalistiche. Alla fine degli anni ’90 si occupa di realtà borderline per il mensile Maxim, di cui diviene inviato fino a quando Andrea Monti lo chiama come consulente per la cronaca nera a News Settimanale. Dalla fine del 2006 alla primavera 2012 dirige la collana di libri inchiesta Yahoopolis dell’editore Aliberti, portandolo alla ribalta nazionale con diversi titoli che scalano le classifiche, da I misteri dell’agenda rossa, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti a Michael Jackson- troppo per una vita sola di Paolo Giovanazzi, o che vincono prestigiosi premi, come il Rosario Livatino per O mia bella madu’ndrina di Felice Manti e Antonino Monteleone. Ha pubblicato tre thriller, considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia (Hobby & Work 2005/ Giallo Mondadori 2008), La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007) e L’illusionista (Aliberti, 2010). Il suo ultimo libro è I diari di Falcone (Chiarelettere, 2018)

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