Suo padre è ancora in servizio al commissariato. Sua madre, Maria Lamon, 41 anni, è invece in cucina. E ci ha appena litigato. Il ragazzo ha appena compiuto diciannove anni e studia al liceo scientifico. Tipo introverso, dicono. Niente di più. Ma questa sera respira forte. E poi agisce. Esce dal salotto, raggiunge la donna e la colpisce al capo, quindi con un serramanico lancia dieci fendenti. Prova a finirla con una picozza. L’ira sale ancora, perché non è morta. Allora la spoglia, la porta nella vasca da bagno e l’annega. Poco dopo, toccherà al padre Nazario, 53 anni, appuntato di pubblica sicurezza al secondo distretto di polizia di San Marco, nel centro storico di Venezia. È il 9 aprile 1981 quando per la prima volta si scatena, in una palazzina di quattro piani alla periferia di Mestre, la furia omicida di Roberto Succo. Ma il delitto viene a galla solo due giorni più tardi. Lo scopre per caso una pattuglia, di passaggio da casa per chiedere come mai Nazario non si presenti in servizio da 48 ore senza avvertire. Ai poliziotti non apre nessuno. Devono passare da una finestra. Appena entrano, basta un rapido giro nell’appartamento per trovare i corpi immersi nell’acqua della vasca da bagno. Sul posto giungono subito il capo della mobile di Venezia Arnaldo La Barbera e il sostituto procuratore Stefano Dragone. Chi è stato non si sa, ma di certo il figlio, Roberto, non c’è. È già lontano, fuggito con l’Alfasud di papà. Diventa subito il primo sospettato. Lo arrestano due giorni più tardi i carabinieri, all’uscita di una pizzeria a San Pietro al Natisone, vicino al confine della Jugoslavia. Confessa subito. All’inizio spiega di essere vicino ad ambienti della camorra. Poi, smentisce. In due ore di interrogatorio, facendosi rileggere il verbale e correggendolo di continuo, racconta cosa sia davvero accaduto. Un racconto delirante. Dice che sua madre l’ha uccisa perché «mi negava ogni più piccola libertà.
L’ho colpita in cucina con un coltello da boy scout; quindi le ho inflitto altre coltellate perchè non era ancora morta. Poi ho trascinato il corpo nel bagno e l’ho infilato nella vasca, riempendola d’acqua, in modo che, entrando nei polmoni, il corpo smettesse di contrarsi» Ha pure il tempo di spiegare come abbia appreso certi sistemi: «Da piccolo sezionavo gli animali dopo averli cloroformizzati». Quanto al padre: «L’ho colpito subito nell’ingresso di casa, perchè non volevo che soffrisse per avere un figlio assassino e la moglie uccisa. L’ho, quindi, finito colpendolo con un’accetta; non dalla parte del taglio, ma dall’altra: ho portato il suo corpo in bagno, con un sacchetto di plastica in testa perché non sporcasse per terra. Sabato sono tornato a casa a Mestre per vedere che cosa era successo e, infine, mi sono diretto in Friuli, dove era nato mio padre».
Uno dei moventi che adduce è che non gli lasciavano usare l’Alfasud. Giudicato affetto da una grave schizofrenia dissociativa e quindi totalmente incapace di intendere e di volere, viene internato al manicomio criminale di Reggio Emilia. Qualche anno dopo sembra riprendersi, ha una condotta esemplare, tanto che nel 1986 gli danno una licenza premio. E lui fugge. Da allora semina il terrore tra la Svizzera e la Francia: viene sospettato di una lunga serie di rapine, furti, aggressioni, sequestri, violenze sessuali. E di cinque omicidi, tra il 1987 e il 1988: un brigadiere, un medico, un ispettore di polizia e due ragazze di 17 anni. Lo acciuffano il 28 febbraio 1988, nelle campagne di Santa Lucia di Piave. E lui non nega di aver ucciso, anzi. Si vanta. Delle morti, delle violenze, delle volte in cui è riuscito a ingannare la polizia. Ma non ci sarà il tempo di trovare riscontri: si suicida soffocandosi con un sacchetto di plastica tre mesi più tardi, il 23 maggio 1988, nel carcere di Vicenza. La sua immagine diventa tra i transalpini quella di un antieroe, ribelle a tutto e tutti. Nel 2001 gli viene dedicato un film, diretto da Cedric Kahn.
Gigi Montero