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Le Storie di Alex Rebatto – Villa Virginia (Prima parte)

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Il matrimonio era stato fissato per il 12 Luglio. Un sabato.
Ci organizzammo all’ultimo momento. Il volo, i bagagli e un’auto fornita di seggiolone per poter viaggiare tra le tortuose e incasinate strade palermitane.
“Per la casa non dovete preoccuparvi” cinguettò la sposa al telefono “Un amico di mio padre, il dottor Capri, sarà ben felice di ospitarvi nella sua villa sul mare.”
“E’ molto malato, pover’uomo” aggiunse abbassando il volume “Ormai passa le sue giornate a Palermo e, a dirvela sinceramente, la villa è un po’ fatiscente.”
Io e mia moglie, seduti sul divano del nostro modesto appartamento di Milano davanti alla televisione accesa, ci ragionammo qualche millesimo di secondo.
Una villa con piscina affacciata sul mare?
Sospirai. Per quella volta avrei fatto uno strappo alla regola rinunciando alla mia frugale quotidianità in cambio di un considerevole colpo di fortuna.
Partimmo con una settimana d’anticipo.
Al diavolo. La casa era gratis, il prezzo dei biglietti aereo abbordabile e il mare si preannunciava tiepido al punto giusto. Rinunciare anche solo ad un giorno di relax sarebbe sembrato criminale.
Atterrati a Palermo saltammo sulla nostra Skoda con il pieno e ci dirigemmo verso il paese.
Vi trovammo ad aspettarci la sposa con il futuro marito. Belli come il sole, sorridenti.
“E’ andato bene il viaggio? Il bambino è stato tranquillo? Ma era il suo primo volo? Ma daiii” e tutto il repertorio di rito.
Poi ci fecero strada.
Come descrivervi la villa?
Un cancello di ferro battuto si spalancava su una magione disabitata di tre piani. Le scale, sui lati, s’inerpicavano fino alla porta d’ingresso serrata da un chiavistello e su cui troneggiava un batacchio in bronzo sul quale era raffigurata la testa di un leone.
La piscina era a secco. L’ombra d’acqua che rimaneva sul fondo sembrava vi stagnasse da anni.
Il giardino interno della villa era adornato da statue. Donne, vittime dell’incuria, con la testa sospesa e bambini dal volto sorridente.
Mentre mia moglie, piccolo stretto in braccio, e i futuri sposi si diressero all’interno dell’abitazione, io restai per un istante a guardare quello spettacolo desolante. Il mare, intanto, aveva deciso d’innervosirsi. Le onde annunciavano l’inizio del crepuscolo infrangendosi sugli scogli.
Il sole si tinse di rosso e io mi avvicinai ad una statua.
Il bambino sembrava non sorridere più. Per un istante mi parve che il suo volto cambiasse forma e le sue labbra si piegassero verso il basso. Scrollai la testa. Era stato un viaggio faticoso.
Il bambino era ancora lì, con la sua espressione angelica.
Arretrai lentamente e quasi inciampai sul gradino ai piedi della porta aperta.
Poi mi voltai e salii le scale. Al piano di sopra sentivo il rimbombo delle voci.
“Ma è bellissimo!” mia moglie “Ma chissenefrega se non c’è la televisione.”
Li raggiunsi in tempo per sentire lo sposo sottolineare che la villa si trovava in una zona abbastanza sperduta e che quindi (niente di cui preoccuparsi troppo, sia chiaro) sarebbe stato meglio chiudersi dentro la sera ed evitare passeggiatine notturne.
Incamerammo l’informazione, ci salutammo con baci e abbracci.
“Ci vediamo al matrimonio, ragazzi.”
Perlustrammo la casa. Tre stanze, due delle quali con i mobili accatastati su un lato, una sala dai muri scrostati e un tavolo in legno nel mezzo, due bagni abitati da decine, centinaia di formiche di notevoli dimensioni e una cucina con un vecchio piano a cottura a gas e dei fiammiferi a disposizione. Il calendario appeso in salotto era fermo al 1982.
Ci dirigemmo in terrazzo. Il sole si era definitivamente arreso. Ora restavano solo le luci della città, a qualche decina di chilometri di distanza, e un lumino a sorvegliare la statua di una madonnina protetta in una cavità, tre metri sotto di noi, nel giardino.
Feci per dire qualcosa quando si sentì un tac e tutta la villa piombò nel buio più assoluto. Mi sporsi oltre il davanzale e non vidi altro che nero silenzio.
“E’ saltata la luce” annunciai “Cominciamo proprio bene. Vado di sotto a vedere se trovo l’interruttore. Mi aspettate qui?”
Mia moglie ruggì “Manco morta.” Il piccolo optò per una semplice ma ineccepibile conclusione:
“Buio.”
Scendemmo le scale illuminando il percorso con il fascio di luce proveniente dallo schermo del cellulare e ci ritrovammo in mezzo alle statue. Davanti a noi la piscina vuota, alle spalle un pozzo chiuso e attorno, nel silenzio più totale, strane sensazioni.
“Non aver paura, Victor” fece mia moglie “Ora papà trova l’interruttore e torniamo di sopra.”
Illuminai una scaletta che scendeva in direzione di un cunicolo che puzzava d’umidità.
“Potrebbe essere lì” mormorai.
Il piccolo indicò in quella direzione. “Paura” disse.
Lo presi in braccio e illuminai lentamente il giardino.
“Non c’è niente di cui aver paura” provai a tranquillizzarlo “Vedi che non c’è niente? Guarda che bella la piscina…”
“Ciao piscina” fece il piccolo trovando un briciolo d’entusiasmo.
“Ora guarda il pozzo. Hai mai visto un pozzo? Ecco. Quello è un pozzo. Lì dentro c’è dell’acqua… forse”.
“Ciao pozzo.”
“Bravissimo. E ora guarda…”
Lo sentii muoversi tra le mie braccia, puntando l’attenzione dalla parte opposta.
Poi sollevò una mano e salutò.
“Ciao bambina.”
Potei sentire nitidamente mia moglie raggelare. Io stesso provai un brivido inspiegabile.
Puntai la luce da quella parte. Solo la scala che dava al piano di sotto e un tavolino in marmo con due sedie di ferro.
“Quale bambina, Victor?” inconsciamente lo strinsi di più “Di che bambina parli?”
Poi la luce tornò, così come se n’era andata. La madonnina ritrovò il suo lumino e il cellulare di mia moglie, appoggiato sul davanzale, annunciò l’inesorabile telefonata di sua madre.
“Torniamo su” dissi incamminandomi. Passai il piccolo a lei e, prima di richiudere la porta alle mie spalle, diedi un’ultima occhiata al giardino. Silenzio e statue sorridenti.
Nient’altro.
Cenammo con qualche panino e del prosciutto rimediati nel tragitto tra l’aeroporto e la villa ascoltando un album di Ruggeri sull’Ipad. Poi, sfiniti, ci stringemmo nel lettone. Victor in mezzo.
Prima di addormentarmi mi parve di sentire un suono provenire da fuori. Quasi un lamento. Chiusi gli occhi e mi concentrai.
Qualche secondo di silenzio avvolto nell’oscurità, poi un suono. Una voce.
Sembrava dicesse “Zio”, in un sussurro. Poi tacque.
Restai col fiato sospeso per un periodo interminabile. Alla mia sinistra il piccolo russava piano. Fu la voce di mia moglie a rendere il mio sangue di nuovo liquido.
“Hai sentito?” mi chiese.
Mentii. “No. Dormi che è tardi. E’ stata una giornata dura.” Poi aspettai che il suo respiro si regolarizzasse e sprofondai nel nulla.

La mattina dopo mi svegliai di buon’ora. Un mal di schiena infernale (trascinatosi ostinato fin da Milano) mi fece stringere i denti fino a che non raggiunsi la Skoda, di sotto. M’immisi nell’ovattato silenzio dell’alba e percorsi una decina di chilometri.
Il paese più vicino si chiamava Arsia. Qualche casupola che circondava una piazza, un bar tabaccheria, un fruttivendolo ancora chiuso e dei chioschetti dove dei pescatori stavano scaricando del pesce trattando sul prezzo.
Ordinai al bancone del bar un caffè e mi sedetti ad uno dei tavolini di fuori. Un tizio sulla sessantina con un giornale in mano mi scrutò muto, poi si fece coraggio.
“Lei non è di queste parti” sorrise mostrando una dentiera nuova di zecca.
Risposi scuotendo il capo e accendendomi una sigaretta.
“Milano” feci con la pronuncia deformata dal filtro “Sono qui per un matrimonio.”
“Uuuh” squittì lui “Un matrimonio, che bellezza. E dove alloggia, se posso permettermi? Mica alla pensione della signora Tonina, vero?”
Lo tranquillizzai. “Stiamo ospiti a Villa Virginia, su a Montellara.”
Si fece cupo. Tutto d’un tratto.
“Villa Virginia?” ripeté. Poi si fece piccolo piccolo e bevve un sorso di caffè.
“Avete un bel coraggio” aggiunse lentamente.
Lo guardai incuriosito e ringraziai con un cenno il ragazzo che mi aveva appoggiato il caffè davanti.
“Che intendete?”
“Oh, nulla di che” il vecchio diede una morsicata al suo cornetto “Forse voi neppure conoscete la storia di quella casa.”
M’incuriosii. Spostai la tazzina di lato lo guardai, in attesa.
“Non conoscete la faccenda della piccola Elena?” fece lui d’un fiato.
La sigaretta, penzoloni ai lati della bocca, tremò. Ma solo per un attimo.
“Non ne so nulla. Me la racconti lei.”
Il vecchio, che si presento come Luciano Sanfilippo, sciorinò i suoi ricordi.
“Era il Giugno del 1982. Un anno particolarmente caldo. I turisti ancora non erano ancora arrivati. All’epoca, la villa, era abitata da una famiglia di Benevento. Guicciardi, si chiamavano. Il padre era un rinomato avvocato e la moglie, parecchio tempo prima, era stata un’attrice di discreta fama. Avevano due figlie. Beatrice ed Elena. Credo fossero gemelle. Insomma, si presentarono quella volta assieme al fratello dell’avvocato. Un tipo segalino, con un’espressione strana. Indossava sempre occhiali da sole e camminava lentamente. Molto, molto lentamente.”
“Aveva problemi mentali?”
“Non lo si è mai saputo ufficialmente. Ma ci sono buone probabilità. Ad ogni modo si sistemarono alla villa e due sere dopo avvenne il fatto.”
Attesi in silenzio.
“Avevano organizzato una festa. Una cosa elegante, con decine d’invitati” riprese “Le bambine, lo ricordo come fosse ieri, indossavano abiti bianchi. Elena aveva una collanina di perle rosse e la sorella un buffo cappello a tesa larga. Un cappello azzurro. Venne offerto da bere dello champagne e messa su della musica d’atmosfera. Saranno passate, non so, meno di due ore quando si udì un urlo terrificante. Corremmo tutti in direzione della piscina e trovammo la piccola Elena lì, sul fondo asciutto. Aveva gli occhi sbarrati e un’espressione di vero terrore sul volto. Mi creda, ce n’è voluto parecchio di tempo prima che riuscissi a togliermi dalla mente quegli occhi ghiacciati.”
“E poi?”
“Poi venne chiamata la polizia. Fecero qualche domanda e il caso venne chiuso come morte accidentale. La madre non fu più la stessa, da allora. La villa venne venduta la settimana dopo e, benché il nuovo proprietario abbia sempre avuto buone intenzioni di rimetterla in sesto, è finita per essere una sorta di fantasma di quel che era stata.”
“Me ne sono accorto.”
Ci fu un lunga pausa, poi il mio nuovo amico mi fece una domanda che mi portò a trasalire.
“Lei ha figli?”
“Uno” annuii.
Mi fissò negli occhi lungamente, poi si aprì in un sorriso sincero.
“Lo ascolti” mormorò sollevandosi in piedi con una certa fatica “Ascolti attentamente quel che dirà.”
Poi si allontanò zoppicando e non lo rividi mai più.

Alex Rebatto

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Alex Rebatto

Alex Rebatto, classe 1979. Ha collaborato nei limiti della legalità con Renato Vallanzasca ed è stato coautore del romanzo biografico “Francis”, sulle gesta del boss della malavita Francis Turatello (Milieu editore), giunto alla quarta ristampa. Ha pubblicato il romanzo “Nonostante Tutto” che ha scalato per mesi le classifiche Amazon. Per Algama ha pubblicato il noir "2084- Qualcosa in cui credere"

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