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Life Music – Nicole Stella, l’usignolo del Jazz

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Prosegue il nostro viaggio nella selva della musica italiana, tra pescecani e chitarre scordate, tra locali fumosi, banconote macchiate di speranze e sacrifici

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Abbiamo qualche mese fa chiacchierato a lungo con Andrea Spampinato, percussionista della Woody Gipsy Band impegnato in un ambizioso progetto solista. Oggi incontriamo una giovanissima cantautrice di belle speranze.
Vi racconto brevemente la sua storia: Nicole nasce in una piccola città del nord, sul lago maggiore. Fin da subito percepisce di avere velleità artistiche e si dedica alla musica. A sedici anni comincia a studiare canto lirico e affina la sua tecnica. La sua strada, però, non è nella lirica, ma nel Jazz. A Pavia, da studente universitaria, comincia a farsi conoscere suonando nei locali poi, nel 2013 si trasferisce a Londra e impone il suo nome nel pur nutrito circuito di musicisti emergenti. Torna in patria nel 2015 e registra il suo album di debutto dal titolo New Day che ottiene consensi sia dalla critica inglese che da quelle americana.
Trasferitasi in Toscana la sua attività live la porta a suonare nelle più grandi città della regione.
L’anno seguente partecipa alla realizzazione di uno spettacolo su Joni Mitchell presentato poi al prestigioso festival milanese JazzMi.
Oggi, Nicole Stella, è pronta a tornare alla ribalta con un nuovo album intitolato Something to say.

Dal 2013 al 2015 hai vissuto e ti sei fatta conoscere a Londra. Si ha, dalle nostre parti, come l’impressione  che nel Regno unito ci sia un’attenzione particolare nei confronti dei giovani, quasi una necessità nel  coltivarne il talento. In Italia, invece, sembra che se non passi da un talent il futuro musicale ti sia quasi  precluso a priori? E’ solo una mia impressione?

In parte credo che tu abbia ragione. La BBC ha sviluppato un programma per la scoperta di giovani talenti, soprattutto cantautori indipendenti. Si chiama BBC Introducing e consente non solo di finire su una radio nazionale, ma anche di partecipare a concerti interessanti per tutta l’Inghilterra. Un programma di questo tipo, che ti dia accesso a radio e tv nazionale da completo sconosciuto, in Italia non esiste, nonostante il gran numero di ragazzi che, come me, scrivono e cantano e avrebbero bisogno di uno spazio adeguato per avere un’opportunità. I talent danno l’illusione di svolgere questa funzione, ma, a mio modo di vedere, c’entrano poco con la musica. Sono show televisivi che rispondono a logiche di intrattenimento televisivo. Anche nel mondo anglosassone i talent sono parecchio diffusi (anzi, sono nati proprio là), però ci sono anche molte alternative ad essi. Vivere nel Regno Unito, comunque, è molto difficile, soprattutto a causa dell’elevato costo della vita. Campare di musica è, paradossalmente, più semplice in Italia, almeno al mio livello, anche se sono convinta che per il “salto di qualità” bisogna essere preparati ad una vita da nomade: su e giù per il mondo, dove sono disposti ad ascoltarti.

La tua voce è molto decisa, intensa. Eppure, ad ascoltare quello che canti, sembra tu voglia appoggiarla su un sound che sfiora diversi generi, dal jazz al country. Altre sceglierebbero la via più facile del brano orecchiabile, di rapido consumo. Tu sembri cercare una tua identità personale, non di svenderti.

Quando scrivo ragiono molto “di pancia”. L’ossatura della canzone nasce sempre di getto, sull’umore del momento, l’influenza del genere o dell’artista che più mi trovo ad ascoltare in quel periodo. Poi c’è un lavoro  di rifinitura, ovviamente, dove il cervello ricopre un ruolo un po’ più decisivo, però non ragiono mai in  termini di “orecchiabilità” o “commerciabilità” quando scrivo, in parte perché, come giustamente dici, voglio  mantenere una certa identità personale e, in parte, semplicemente perché una buona fetta del processo  avviene a livello quasi inconscio. Credo, comunque, che scegliere di scrivere un brano di rapido consumo  quando in realtà hai altro da dire, non ti porti da nessuna parte. Esistono milioni di brani già scritti con  questa logica, la gente ne avrà anche le orecchie piene. Forse è il momento di dare più spazio alla  personalità, all’individualità e all’originalità.

Relativamente alla domanda precedente, il tuo pezzo Something to Say, sembra una canzone moderna,  composta da John Denver e cantata da Jewel. Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali? E se dovessi  sceglierne uno, qual è il genere musicale che prediligi?

Ti ringrazio per l’accostamento a John Denver e Jewel, perché sono due artisti che apprezzo molto. Come potrai immaginare, ho moltissimi riferimenti musicali e amo tanti generi musicali diversi tra loro. Da piccola ascoltavo De Andrè e un vinile di Joan Baez di proprietà di mio padre. Da ragazzina, invece, ero una rockettara. Sono passata anche attraverso un periodo punk e grunge. Specialmente attraverso il grunge, tanto che se penso alla mia adolescenza penso ai Nirvana. Dopo l’infatuazione per il rock sono tornata al cantautorato e al folk, scoprendo, un po’ più recentemente, Joni Mitchell e innamorandomi della sua capacità di descrivere la vita. Attraverso Joni, poi, arrivi dritta al jazz e quindi al blues e, ascolto dopo ascolto, si aprono mille altri mondi.

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E’ ormai appurato che, al giorno d’oggi, spesso non basti più solo avere una bella voce ma sia necessario  seguire una strada nuova, qualcosa d’inesplorato. Eppure che piaccia. Decisamente difficile, credo. Il  pubblico è estremamente versatile, le mode cambiano velocissime e gli idoli si dimenticano in un attimo.
Come si può riuscire, in Italia, ad emergere e a restare sulla cresta abbastanza a lungo?

Credo sia davvero difficile trovare una “formula”. La mia convinzione è che bisogna essere sinceri, e qui mi riallaccio al discorso sull’identità. Dagli anni Sessanta ai Novanta ci sono stati movimenti culturali, politici, ideologici che si sono intrecciati fortemente alla musica. I miei idoli musicali erano tutti “in linea” con un certo pensiero e credo che la maggior parte di loro lo fosse per genuina convinzione personale. C’era un gran coinvolgimento perché i ragazzi dell’epoca si ritrovavano nelle canzoni che ascoltavano per radio. Oggi non esiste più nulla di tutto ciò, ma la necessità di identificarsi in qualcosa, in un’idea o in un’emozione, credo faccia parte della natura umana e che sia presente in ogni epoca e in ogni dove. Quello che cerco di fare io è trasmettere quello che sento o penso e vedere se qualcun altro sente o pensa la stessa cosa.

Tu hai studiato canto lirico fin da quando avevi sedici anni. Il tuo modo di cantare ne è la dimostrazione.  Hai mai pensato di darti alla musica lirica o il tuo obbiettivo è sempre stato quello di portare una voce  “importante” in un contesto più alla portata di tutti?

Purtroppo la lirica non faceva per me. A volte ascolto la musica classica e anche l’opera, ma non è quella la  mia vera passione. Poi l’ambiente che ho visto in Conservatorio non mi piaceva. C’era molta competizione e,  nella mia esperienza, poca voglia di investire nei ragazzi che si avvicinavano per la prima volta a quel mondo. Sono tornata molto felicemente a cantare le canzoni di Joan Baez nel giro di tre anni. Però non  rinnego assolutamente quell’esperienza, che mi ha fortificato sia a livello musicale che personale. Come cantante mi sento facilitata dopo quei tre anni di lirica e, nonostante sia una pessima musicista per gli standard da musica classica, una certa preparazione ce l’ho e questo aiuta molto nella fase di scrittura.

Hai suonato a Londra, nel Pavese, in Toscana. Il pubblico come cambia? Sogni palazzetti da 10000 persone o pensi di voler restare un’artista da vivere tra un bicchiere di birra e un abbraccio a fine concerto?

A Londra ho suonato in molti posti, compresa la strada. Per un periodo ho suonato stabilmente in un ristorante davvero bello all’interno del Southbank Centre, una sorta di centro polivalente per le arti, con gallerie, teatri, cinema, proprio sulla riva del Tamigi. Purtroppo servivo più che altro come musica di sottofondo, mentre la gente mangiava per poi avviarsi a vedere un film o uno spettacolo. È stata una buona palestra, ma l’ambizione è essere ascoltati. Una dimensione che mi piace molto, in cui vedo avverata questa esigenza, è quella dell’house concert, ma in Italia la cosa è ancora poco diffusa. Mi piacerebbe organizzare questo tipo di eventi a Pisa, dove vivo attualmente, e a Pavia, città in cui torno molto spesso a suonare, dando spazio anche ad altri colleghi, ma non ti nascondo che i palazzetti, sì, sono il sogno vero e proprio.

Il 20 marzo uscirà il tuo secondo album. Cosa ci puoi anticipare? Sai già dove lo presenterai?

Sono in contatto con vari locali in giro per l’Italia e qualche locale all’estero. Per il momento il tour è in fase di definizione, ma posso anticiparti che passerò sicuramente da Roma, Bologna e Milano.

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Nel mondo dello spettacolo l’aspetto fisico, seppure non fondamentale, rappresenta un notevole  contributo al successo. Tu, da ragazza sicuramente affascinante, ritieni che la bella presenza dia ad un  artista, anche musicale, una spinta in più? O forse, invece, sia controproducente?’

Questo è un terreno in cui si rischia di dire banalità o, peggio, ipocrisie! Di sicuro la bella presenza aiuta, ma,  anche in questo caso, i miei riferimenti sono troppo lontani dalla concezione attuale di bellezza. Oggi
abbiamo fotocamere ad altissima risoluzione, Instagram, YouTube, Facebook eccetera eccetera. Essere belle  significa spesso essere appariscenti o, peggio, finte. L’aspetto fisico è uno dei modi con cui spesso si cerca di  richiamare l’attenzione del pubblico, specialmente sui social. Io questo non lo potrei fare, proprio perché, come dici tu, in questo modo nessuno andrebbe a prestare attenzione al prodotto artistico, ma si soffermerebbe all’apparenza. Io vorrei essere bella alla Joni Mitchell o alla Joan Baez, un po’ alla hippie chick, senza sguaiatezza e volgarità.

Sei una ragazza giovane, talentuosa e con tutto un percorso davanti da doverti costruire. Hai paura del  futuro, degli eventuali insuccessi o sei pronta ad affrontarli uno dopo l’altro? Sei sicuramente consapevole  delle difficoltà che il mondo della musica ti porrà davanti ma, viceversa, sembri avere le idee chiare. Quale  pensi possa essere la tua chiave del successo?

Come credo tutti, ho paura. Non te lo nascondo. Penso che la paura, legata soprattutto all’incertezza del futuro, sia uno degli elementi che contraddistinguono la mia generazione. Certo, per una musicista l’incertezza è ancora più grande, ma a ben vedere riguarda un po’ tutti. A volte penso che, in realtà, il futuro non è mai stato certo, che non lo può essere per definizione e questo mi rassicura, mi spinge a dare il massimo oggi, senza preoccuparmi troppo del domani. Una delle cose di cui ho paura è il non riuscire a trasmettere correttamente il mio progetto, la mia idea, in cui, invece, credo molto. Io credo nelle mie canzoni e so di avere una voce bella e potente e, almeno per il momento, non ho la minima volontà di arrendermi di fronte alle difficoltà. Credo che la chiave di un mio eventuale successo sarà la sincerità di cui ti  parlavo prima. Non credo di riuscire ad andare molto lontano senza seguire la mia vera identità.

PAGINA UFFICIALE DI NICOLE STELLA

Alex Rebatto

L’ULTIMO NOIR DI ALEX REBATTO:

 

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Alex Rebatto

Alex Rebatto, classe 1979. Ha collaborato nei limiti della legalità con Renato Vallanzasca ed è stato coautore del romanzo biografico “Francis”, sulle gesta del boss della malavita Francis Turatello (Milieu editore), giunto alla quarta ristampa. Ha pubblicato il romanzo “Nonostante Tutto” che ha scalato per mesi le classifiche Amazon. Per Algama ha pubblicato il noir "2084- Qualcosa in cui credere"

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