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Dauphine Bessi e il caso dei due principi

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«I piccoli Stati a volte hanno grandi problemi politici», si disse Dauphine Bessi, consigliere nazionale responsabile per gli Affari costituzionali, una delle donne più influenti e rispettate del suo (piccolo) Paese. E toccava a lei risolverli. I grandi problemi politici del Principato di Monaco in questo caso erano due bambini – due maschietti che stavano crescendo negli uteri della Principessa, sua Altezza Serenissima Charlène-Sophie Grimaldi, e di sua moglie, la Principessa Consorte contessa Loredana Camparini Vacca.

Entrambe erano in coma irreversibile da sei mesi dopo lo spaventoso incidente d’auto sulla Moyenne Corniche. La gravidanza era proseguita lo stesso, i bambini si erano salvati e sarebbero venuti al mondo, sia l’uno che l’altro, fra oggi e domani.

A quale dei due apparteneva di diritto la successione al Principato?

Non c’erano dubbi sul Reggente. Almeno quello, visto che Jean-Rainier Grimaldi-Kurczak e Ludovic Camparini Vacca-Kurczak, come tutti i bambini, sarebbero nati alquanto minorenni. Gli Statuti della Famiglia Sovrana definivano esattamente il caso. Charles-Albert, fratello maggiore di Charlène-Sophie, avrebbe assunto la Reggenza fino ai loro diciotto anni.

«Meno male, almeno lui è un ragazzo di buonsenso» pensò Dauphine – considerava ragazzi tutti coloro che avessero almeno vent’anni meno di lei, che era settantenne. Charles-Albert aveva a suo tempo rifiutato di succedere al padre – gestire il Principato di Monaco non era mica uno scherzo – ma dopo il lungo regno di sua sorella, era maturato e si sarebbe assunto volentieri il ruolo di Reggente – per diciotto anni esatti.

Il problema era la turbolenta politica del Principato. A fare il bello e il cattivo tempo erano una dozzina di casate. Considerando le famiglie allargate, forse duecento persone. Ma sull’argomento della successione erano profondamente divise.

Un gruppo diceva che Jean-Rainier era l’unico ad avere del sangue Grimaldi nelle vene, e che pertanto doveva essere lui a salire al trono.

Un alto gruppo obiettava che il figlio legittimo del Monarca era il bambino che sarebbe stato messo al mondo dalla moglie del Sovrano. Della Sovrana, nel caso specifico. Qualcosa nella Costituzione del Principato autorizzava una simile interpretazione, o perlomeno non la escludeva. E diverse leggi del passato sembravano rafforzare l’idea. Se poi Ludovic fosse venuto al mondo anche solo pochi secondi prima di Jean-Rainier, essendo per legge figlio putativo della Principessa, la posizione di questo gruppo si sarebbe trovata rafforzata.

Ma dietro qualunque argomentazione dottrinale c’erano gli interessi molto concreti dei gruppi legati all’Italia. La contessa Camparini Vacca, come consorte della Principessa, si era fatta benvolere. E non solo per il suo carattere solare: la sua vasta parentela nobiliare negli Stati italiani significava grandi risorse economiche che andavano a beneficio di diverse famiglie monegasche.

Un terzo gruppo sosteneva che la successione doveva passare al ramo collaterale. In sostanza, Charles-Albert avrebbe dovuto assumere non la Reggenza, ma direttamente il Trono. Questa sarebbe stata un’innovazione costituzionale, ma il gruppo si faceva forte del fatto che l’inseminazione della coppia principesca era avvenuta al Centre Catalá de Fecundació Artificial con lo sperma di uno stesso donatore. Witold Kurczak viveva nella Repubblica Rutena ed era una specie di hippy in ritardo di un secolo. Figlio dei fiori, vegano, gay: impresentabile, come padre di un principe regnante. Il vero punto tuttavia era che i figli di Charles-Albert, a cominciare dalla primogenita Thérèse-Grace-Annette, erano tutti più o meno intortati con Lou Pelandroun, il dominatore della politica e dell’economia della vicina Countèa de Nissa. E Pelandroun aveva premuto per la candidatura di Charles-Albert.

«Despoei tugiù a curù russa e gianca» canticchiò Dauphine, «E stàr r’emblèma d’a nostra libertà». L’inno nazionale… I colori di Monaco, rosso e bianco. Il rispetto di tutti, l’indipendenza, la libertà. Ma ora la successione poteva cambiare le cose. L’appoggio della Francia, sancito da un trattato plurisecolare, c’era sempre: nessuno poteva invadere Monaco senza vedersela con il potente vicino. Che però, a dire il vero, non era più molto potente né molto vicino. Con l’Europa dei Popoli, da mezzo secolo la Francia perdeva un pezzo ogni anno. Roquebrune un tempo era stata francese, ma un decennio avanti si era voluta staccare per passare alla Corsica. Mentone si era proclamata indipendente ancora prima. I cinque dipartimenti intorno a Tolone da tempo stavano per conto loro: la base navale francese era stata trasferita a Marsiglia, ma anche lì era imminente un referendum e Prouvenço Liure, il partito indipendentista, sembrava proprio dovesse vincerlo.

In quella seconda metà del ventunesimo secolo, comunque, i problemi fra gli Stati europei non si risolvevano più con le armi. L’Unione Europea, che teneva insieme tutti i mini Stati in cui si erano frantumate le nazioni del millennio precedente, aveva una forza militare di dissuasione capace di fargliela smettere subito a chiunque si fosse messo a litigare con troppa cattiveria. Anche se Monaco non era un membro dell’Ue, era pur sempre sotto l’ombrello dell’Unione, e da quel punto di vista era in una botte di ferro. Ma c’erano altre forme di ingerenza che passavano quasi inosservate. C’era la dominazione economica, che aveva ripreso alcune delle forme del periodo dello Strapotere Finanziario di ottant’anni prima. Avere tra i piedi un Pelandroun o gli amici italiani della Camparini Vacca non sarebbe stato troppo bello per Monaco.

A coronare il problema, il Partitu Republicanu aveva fatto a Dauphine insistenti proposte per rovesciare la monarchia, promettendole il posto di presidente della Repubblica. La Convenzione europea sui diritti politici del 2064 escludeva che il semplice preparare un colpo di Stato potesse essere punito dalla legge, ma lei aveva lo stesso avvisato della situazione il Consiglio della Sicurezza, i cui membri avevano cominciato ad andare a dormire a Beausoleil e a portarsi dietro le armi.

«La nascita di un bambino dovrebbe essere un momento di gioia» pensò Dauphine, mentalmente stremata. Perché gli esseri umani dovevano sempre fare tanto casino, si disse, per l’ennesima volta. Perché non si poteva lasciar governare Mùneghu-Um, il supercomputer a intelligenza artificiale che giaceva venti metri sotto il Palais Princier? Già dirigeva il traffico e la capitaneria di porto, emetteva i biglietti ferroviari e quelli delle navette, staccava le multe per divieto di sosta, intermediava tutti i pagamenti del territorio monegasco, concedeva i prestiti, emetteva le sentenze civili e penali di primo grado e decideva quando si dovessero revisionare le infrastrutture urbanistiche. Non è che ci mancasse molto per arrivare al governo completo del Principato.

Il pensiero le diede un’idea. Si mise davanti all’Interfaccia ed entrò in comunicazione con Mùneghu-Um. «Specchio, specchio delle mie brame» chiamò, con ironia, «chi dev’essere il Principe del reame?».

La sera stessa era tutto finito. Senza che lei l’avesse previsto o lo volesse, proprio la sua chiamata aveva dato fuoco alle polveri. Mùneghu-Um aveva assunto il potere: le guardie umane e robotizzate della Liga Infurmàtega, di fatto l’organizzazione più forte e capillare del Principato, pattugliavano le strade armate di fucili computerizzati, mentre i droni lighisti svolazzavano dappertutto, perfino sugli yacht nel porto, perfino sull’Isola Ranieri, settecento metri al largo di Fontvieille. Una bozza di Costituzione della Repubblica Informatica le fu sottoposta per un parere: c’erano solo una decina di incongruenze o di errori, risultato dell’inesperienza giuridica del supercomputer, e Dauphine li corresse, con pazienza. Le disposizioni transitorie evitavano di spogliare i due principini di tutte le loro considerevoli ricchezze, ma le ridimensionavano parecchio. Le famiglie più influenti si vedevano decurtare patrimonio e influenza politica. Per il resto, tutti i diritti  umani venivano salvaguardati.

Monaco aveva conosciuto la prima vera rivoluzione della sua storia plurisecolare. E per la prima volta dall’incidente della Corniche, Dauphine andò a letto tranquilla e dormì benissimo.
Paolo Brera

Il veleno degli altri, l’ultimo noir di Paolo Brera – GUARDAblank

 

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Paolo Brera

Paolo Brera è nato nel secolo scorso, non nella seconda metà che sono buoni anche i ragazzini, ma nell’accidentata prima metà, quella con le guerre e Charlie Chaplin. Poi si è in qualche modo trascinato fino al terzo millennio. Lo sforzo non gli è stato fatale, ma quasi, e comunque potete sempre aspettare seduti sulla riva del fiume. Nella sua vita ha fatto molti mestieri, che a leggerne l’elenco ci si raccapezza poco perfino lui: assistente universitario di quattro discipline diverse (storia economica, diritto privato comparato, eocnomia politica e marketing), vice export manager di un’importante società petrolifera, consulente aziendale, giornalista, editore, affittacamere e scrittore. Ha pubblicato una settantina di articoli scientifici o culturali, tradotti in sei lingue europee, due saggi (Denaro ed Emergenza Fame, quest’ultimo pubblicato insieme a Famiglia Cristiana), due romanzi e una trentina di racconti di fantascienza, sei romanzi e una decina di racconti gialli, più un fritto misto di altri racconti difficili da definire. Negli ultimi anni si è scoperto la voglia di tradurre grandi autori, per il piacere di fare da tramite fra loro e il pubblico italiano. Questo ha voluto dire mettere le mani in molte lingue (tutte indoeuropee, peraltro). Il conto finora è arrivato a quindici. Non è che le parli tutte, ma oggi c’è il Web che per chi lo sa usare è anche un colossale dizionario pratico. L’essenziale è rendere attuali questi scrittori e i loro racconti, sfuggire all’aura di erudizione letteraria che infesta l’accademia italiana, e produrre qualcosa che sia divertente da leggere. Algama sta ripubblicando le sue opere in ebook, a partire dalla serie dei romanzi con protagonista il colonnello De Valera.

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