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Gianfranco Consoli: “Io, la Primula Rossa, finito dentro per un sequestro mai fatto”

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gianfranco consoli

 

Dal carcere è uscito da quasi 14 anni. Dentro, ne ha passati una ventina. Da Bergamo a Busto Arsizio, da Monza a Opera, Pavia, Novara, Asti, giusto per citare alcune prigioni. E in ognuna di esse ha lasciato il ricordo di una forte allergia alle direttive: «Volevano che stessi in una cella singola insieme ad altre due persone, un cesso e, se andava bene, una finestra. Due metri quadri a testa, chiuso così 22 ore su 24. Mi rifiutavo di entrare e finivo in isolamento. Perdendo ogni beneficio di legge. Oggi l’Italia è stata condannata più volte dalla Corte di Strasburgo per le stesse cose che io all’epoca denunciavo: un sovraffollamento disumano e incivile. È la mia personale rivincita».

Si chiama Gianfranco Consoli, è bergamasco. E per via della sua abilità di sfuggire alle forze dell’ordine, divenne noto alla cronache come la “Primula Rossa” della Val Cavallina. Tuttora si batte per i diritti dei detenuti e per denunciare i paradossi della giustizia italiana. Ha un blog (cavolandia.qblog.it), stampa i moduli per fare ricorso a Strasburgo a poveri diavoli che gridano la propria innocenza e che si rivolgono a lui quando non sanno più a che santo votarsi. Ma da 14 anni, ossia da quando è uscito definitivamente, ha soprattutto una cosa in mente: far riaprire il processo più duro e pesante, quello che lo trascinò per 12 anni dietro le sbarre. E se si guardano attentamente i documenti che mostra mentre racconta la sua storia, si avverte come un pugno allo stomaco. Fino a restare senza fiato. «Sono decenni che lo dico. Io, con quella vicenda, non c’entravo nulla».

LA STORIA DI GIANFRANCO CONSOLI

Siamo agli inizi degli anni ’80, quando si verifica un clamoroso sequestro di persona. Non uno dei tanti che attanagliavano la borghesia italiana. Accade in Olanda. Vittima Antonia Van der Valk, moglie del proprietario di una catena alberghiera. Il rapimento dura tre settimane, dal 27 novembre al 17 dicembre 1982. Ai banditi il colpo frutta qualcosa come dieci miliardi delle vecchie lire, un riscatto che non verrà mai ritrovato. In compenso si muove la polizia di mezza Europa. E si scopre che gran parte della banda proviene dalla bergamasca. «Conoscevo qualcuno di loro, e per questo sono entrato nelle indagini della polizia dei Paesi Bassi».

All’epoca infatti Consoli si trova in Olanda. Un anno più tardi, lo arrestano in Italia per una vecchia condanna diventata definitiva. Ed è qui che viene interrogato su rogatoria dell’ufficiale di giustizia olandese. Proprio a riguardo del sequestro. «Fui sentito sia come testimone che come imputato. Mi dichiarai innocente e chiesi di essere estradato per difendermi davanti ai giudici naturali, quelli olandesi. La richiesta fu ignorata e l’Olanda non mi convocò nemmeno come testimone». Poi, non si sa più nulla per ben cinque anni. Fino al 1988, quando inizia l’istruttoria italiana.

«Furono acquisiti gli atti delle indagini istruttorie  olandesi. Risultava che un poliziotto, tale Klok, avesse dichiarato di aver trovato le mie impronte digitali su una bottiglia di birra ritrovata nell’appartamento del sequestro. Siccome non poteva essere vero, chiesi di vederle, quelle impronte. Figuriamoci, sono pure astemio».

Invece? «Invece no. Se così fosse stato, se io avessi fatto parte della banda, avrebbe dovuto giudicarmi l’Olanda per quanto commesso. Invece non accadde. L’Olanda non aveva nemmeno investito l’Italia della convenzionale domanda di perseguimento. Tantomeno, in Italia, ci fu mai, mi risulta, una richiesta di procedere contro di me firmata dal nostro ministro della giustizia. Non fu fatta richiesta di interrogare Klok, non vennero ascoltati gli imputati in Olanda. Chiesi un supplemento d’indagine, ma l’eccezione venne respinta. Così la mia difesa chiese il rito abbreviato, che fu essenzialmente svolto con l’istruttoria olandese. Scoprii poi che delle impronte di cui parlava in un rapporto Klok non c’erano nemmeno tracce dattiloscopiche».

Consoli non ci sta e chiede all’Ambasciata dei Paesi Bassi di avere accesso al fascicolo. E la sorpresa è dirompente quando gli arriva una lettera del Consolato Generale datata 27 ottobre 1994, quando la sua condanna è ormai definitiva. Perché all’inizio la lettera gli spiega che lui è stato interrogato su richiesta dell’ufficiale di giustizia olandese, per rogatoria come testimone per l’Olanda, ma come “imputato” per l’Italia l’8 aprile 1983.

Ma, poche righe più avanti, recita: “Si è indagato sulla causa penale olandese intentata contro di lei. Presso il pubblico ministero circondariale di Den Bosch non ci sono più dati disponibili. Dopo un consulto presso il Registro Giudiziale risulta che Lei non appare in nessun fascicolo olandese. Ciò significa che contro di Lei non è mai stata intentata una causa penale”.

E ovviamente, si pongono alcune logiche e angoscianti domande: come è possibile che se Consoli fu interrogato come imputato, non esista in Olanda alcun fascicolo che lo riguarda, tantomeno una causa contro di lui? E se non è mai stata intentata una causa in Olanda contro di lui e di là è invece apparso solo come testimone, come è possibile che sia stato giudicato colpevole in Italia? «Quando uscii dal carcere andai in Olanda, dove mi fu confermato che non c’era mai stato alcun procedimento contro di me. Risultavo sconosciuto agli uffici giudiziari. Chiesi alla polizia centrale chi fosse questo Klok, ma pare che lì nessuno lo conosca. Di certo la sua dichiarazione sulle mie impronte, l’elemento che mi portava sulla scena del crimine, in Olanda non fu nemmeno considerata utile per accusarmi». In Olanda sul sequestro della moglie del magnate degli alberghi stanno per fare un film.

E Consoli spera che si torni finalmente ad occuparsi anche di lui. A gennaio ha scritto al ministro di giustizia Paola Severino sulle dichiarazioni di Klok, affinché chieda lumi al collega olandese su ciò che considera un “clamoroso falso ideologico scritto”.

Ha chiuso la lettera così: “Se ciò non produrrà risultati mi vedrò costretto a sollevare una questione giuridico/politica in territorio olandese, dove chiederò ospitalità, fino al chiarimento totale di tutti i fatti”. Sono passati trent’anni. Ma sulla sua scrivania Consoli continua ad accumulare istanze, lettere, fax. «Ho fatto 12 anni di galera per un sequestro che non ho mai commesso, del quale non ero nemmeno stato accusato in Olanda e sul quale l’Italia non aveva competenza giurisdizionale. Intendo ottenere una certificazione firmata e timbrata dalle autorità dei Paesi Bassi che smentiscano questo misterioso Klok sulle impronte mai esistite. E voglio ottenere la revisione del processo. Non è questione di tempo. È questione di verità».

Manuel Montero

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