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Blade Runner nel cuore di milano

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Dipinge su una parete imbrattata di vernice nera, incastonando la tela tra due piccoli teschi. Ne ha tanti, immersi tra modellini di aeroplani di guerra “sporcati” ad arte, prototipi di Alien e Predator che scolpiva quando faceva il modellista, e uno scudo di Capitan America trasformato in un relitto di guerra e appeso al muro.

«La paura è la molla che ti spinge a vivere» dice. Si chiama Tom Porta, 46 anni, emergente nella top 100 degli artisti italiani, ultima performance al Palazzo delle Esposizioni di Torino nella collettiva propaggine della Biennale di Venezia. In un appartamento al secondo piano del vecchio cuore industriale di Milano, Lambrate, Tom vive in una specie di museo, fatto di reliquie di aerei precipitati, raccolte di chitarre rare (Ibanez Jam e un’ultima edizione  artigianale sfornata dal liutaio di Frank Zappa) e zaini corazzati neri, una Hornet 600 con una bocca di squalo davanti al manubrio e un’introvabile Honda Zoomer per muoversi in città. D’altra parte i suoi quadri rappresentano questo: cimeli. Sulla sua tela la Torre Velasca diventa un deserto postatomico,  Parigi una capitale devastata, New York una Gotham City senz’anima viva. Sembra Blade Runner, o, se vi pare, l’ultima scena de Il Pianeta delle Scimmie. «È l’abbandono. Ciò che resta. Da piccolo mi fermavo nei campi a vedere le auto bruciate. Pensavo che ognuna di esse avesse una lunga storia da raccontare: la fatica per produrla con tutti gli accessori, il vanto e la gioia del primo acquirente. Poi il lento declino fin lì, nel campo. Quante cose aveva da dire? Ecco, credo sia per questo che i relitti mi hanno sempre affascinato. Dipingo l’abbandono, poi, a seconda delle paure di cui la gente soffre, ognuno ci legge ciò che crede: chi un bombardamento, chi la fuga, chi l’apocalisse».

 

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I pennelli li usa di notte, con una precisione certosina, maniacale, tanto sa che i suoi amici con cui divide casa, non lo disturberanno: due pitoni e un dragone barbuto australiano, nutrito a vermi e cavallette; anche loro in fondo, ultime vivi relitti di un mondo preistorico. Ha pubblicato libri, ha fatto mostre ovunque, ma il curriculum delle sue opere più importanti se lo è fatto tatuare sulle braccia: gli aerei e la guerra da una parte, i kamikaze giapponesi dall’altra. «I kamikaze furono la mia reazione all’11 settembre, quando in Italia, e solo in Italia, ribattezzarono kamikaze gli islamici che si erano schiantati sulle Torri Gemelle. Invece i kamikaze sono tutt’altro da quella vigliaccheria, era il concetto tutto giapponese dell’ultima arma, del Davide contro Golia. Ci studiai due anni prima di mettermi all’opera. Riuscii con fatica a recuperare dal Giappone le foto che venivano scattate dai baracchini sulle navi il giorno della missione, che spesso rappresentavano l’unica immagine di quei ragazzi e oggi delle loro stesse famiglie ormai svanite, il volto di chi è consapevole che si tratta dell’ultimo giorno. Feci 140 quadri sul tema, poi dopo quattro anni non ressi più. Mi erano entrati dentro, e dipingevo con gli occhi gonfi». L’ossessione per la guerra però non lo abbandona. «Abbiamo perso il senso di ciò che è orrendo» sostiene «e la guerra oggi ci sembra un reality». Di più. Un social network, «dove i valori vengono stabiliti da un “mi piace”». Ed ecco che lui li fa comparire sarcasticamente su un “povero cristo” crocifisso (“aggiungi un amico”), su una scena bellica, o sullo sbarco in Normandia sotto la scritta di un viaggio “lastminute”. E ancora carri armati in saldo, soldati con elmi Disney e divise Warner Bros, missili marchiati Coca Cola e Mc Donald’s. L’impatto è violentissimo e a Palazzo Ducale di Genova lo scorso anno Tom va in scena con una personale molto particolare. Dipinti suoi e foto di Robert Capa.

 

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Sono gli ossimori dell’epoca contemporanea, come, di prossima fattura, i quattro marines davanti ai cinque cerchi delle pacifiche Olimpiadi, mutati alla meglio in cinque mirini da fucile. Perché Tom cannibalizza tutto e dà sfogo sulla tela a ciò che resta, come sempre. Così, le croci rosse sui negativi di Bert Stern che ritraevano Marilyn diventano icone da stagliare sui ritratti di chi c’è da salvare del Novecento: Marilyn stessa, Che Guevara, Clint Eastwood, ovviamente nella sua versione tormentata. Alla Blade Runner. La domanda è d’obbligo: e tu, di cos’hai paura? Ci pensa e inizia un discorso serio. Ma il suo stereo manda fuori le note dell’ultimo Batman. Allora smette. Sorride. E la butta lì: «Io non ho paura».

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